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Parlo di Francesco Marino Mannoia, uno dei pentiti che mi ha accusato

Per i lettori – credo non pochi – che non conoscono esattamente il significato del termine inglese “killer”, leggo il vocabolario della lingua italiana della Treccani pag.1026 vol. II : killer: ” Sicario, persona che assassina su commissione, per conto cioè di un mandante”.

Ma di attività criminale ben più nefanda si è reso responsabile per anni il Mannoia : raffinatore di droga, cioè trasformatore della morfina base in eroina nei laboratori impiantati e gestiti dalle organizzazioni mafiose cioè dispensatore di distruzione fisica, psichica, mentale di innumerevoli uomini, nella quasi totalità giovani. Altro che “una ventina” di omicidi con revolver o fucile!

Quest’uomo che oggi rifiuta la profferta statale di una così ricca buonuscita, che neanche il più alto funzionario, dopo una vita intera spesa al servizio dello Stato, potrebbe mai sognare di avere, ha avuto una parte non indifferente nella mia vicenda giudiziaria.

Egli ha scritto nel mio processo una delle pagine più oscure e inquietanti che in maniera emblematica assurge a prova della ignominia cui può giungere lo strumento poliziesco-giudiziario del “pentitismo”, qualora sia male interpretato, gestito, utilizzato e valutato.

Il 2 aprile 1993 i Magistrati della Procura della Repubblica di Caltanissetta (Procuratore Capo dott. Tinebra e Sost. Procuratori dott Petralia e dott.ssa Boccassini) andarono a New York per incontrare Marino Mannoia e chiedergli qualcosa che potesse indirizzare o aiutare le indagini sulle stragi Falcone e Borsellino di cui si occupavano.

Nella occasione gli chiesero anche di parlare di me cioè di dir loro che cosa sapesse sul mio conto; ero, allora, nel Carcere di Forte Boccea da oltre tre mesi (dal 24 dicembre 1992).

L’illustre pentito, alla esplicita domanda, rispose che su di me non aveva proprio nulla da riferire. Ecco la sua testuale dichiarazione :”Non ricordo di aver mai conosciuto il dott. Bruno Contrada…..né ricordo di aver mai sentito parlare dello stesso come persona legata o comunque vicina a Cosa Nostra. Ricordo solo di aver sentito nominare il dott. Contrada come componente dell’apparato della Polizia che lavorava a Palermo”. Null’altro – Risposta chiara, precisa, inequivocabile, decisa.

Negli anni ’70 e ’80 il Marino Mannoia era stato a Palermo un “grosso criminale” mafioso, killer, trafficante di droga. Negli stessi anni il dott. Contrada era stato a Palermo un “grosso poliziotto” e tale conosciuto negli ambienti perbene e in quelli malavitosi.

Per un siffatto criminale l’essere a conoscenza che un siffatto poliziotto era un colluso con “Cosa Nostra”, un amico di capi della mafia, un dispensatore di favori a mafiosi, un corrotto, un uomo che con la divisa dello Stato faceva parte dell’Antistato, era e doveva sicuramente essere un fatto indimenticabile.! Poteva, certo, in quel momento non ricordare uno dei tanti omicidi commessi, una delle tante partite di droga raffinate e trafficate, uno dei tanti suoi compagni di crimini ma mai e poi mai che il capo della Polizia giudiziaria per anni a Palermo fosse stato uno dei loro, fosse stato un suo complice.

Solo chi è sciocco o in mala fede può non riconoscere tale fatto e verità.

Qualcuno, però, potrebbe obiettare : forse il Mannoia non voleva rivelare una tale eclatante ed esplosiva notizia di cui era depositario ai Magistrati di una Procura non competente (quella di Caltanissetta); l’avrebbe donata poi a quelli della Procura competente (quella di Palermo).

Ma l’obiezione non regge perché proprio il giorno dopo, cioè il 3 aprile 1993, il sig. Marino Mannoia riceve un’altra visita, sempre negli Uffici della Procura del Distretto Meridionale di New York.

Questa volta sono i Magistrati della Procura della Repubblica di Palermo (Procuratore Capo dott. Caselli e sost. Procuratore dott. Lo Forte) che chiedono al grande pentito di dare il suo prezioso contributo conoscitivo o perlomeno orientativo sull’omicidio dell’on. Salvo Lima.

Nell’occasione, così come avevano fatto i loro colleghi nisseni, pongono un’esplicita domanda al Mannoia : cosa ha da dire sul dott. Bruno Contrada.

Risposta :”Di Contrada non ricordo praticamente nulla che possa avere interesse processuale, con tanti nomi di poliziotti potrei anche confondermi”. Null’altro.

Prima osservazione : io nei panni degli interroganti avrei innanzitutto detto :”Senta, sig. Marino Mannoia, lei dica ciò che sa del dott. Contrada; poi quel che può avere interesse processuale lo stabiliamo noi che siamo a questo deputati”.

Seconda osservazione : io, sempre nei panni degli interroganti, avrei detto : “Senta, sig. Marino Mannoia, noi non le chiediamo di parlarci di un qualsiasi poliziotto a nome Rossi, Bianchi, Vitale, Esposito ma del dott. Bruno Contrada, Capo della Squadra Mobile e della Criminalpol di Palermo, negli anni ’70 e ’80, quando lei era mafioso, latitante, killer, trafficante di droga, etc…, a Palermo negli stessi anni.

Quindi, bando alle ciancie, e dica quel che sa del dott. Bruno Contrada perché non può confonderlo con nessun altro”.

Allora quale è la conclusione da trarre da queste domande e risposte del 2 e 3 aprile 1993 a New York? Che Marino Mannoia nulla sapeva e nulla quindi aveva da dire su di me. E nulla dirà per tutto il 1993, così come aveva, peraltro, fatto negli anni precedenti, dall’ottobre del 1989, data del suo pentimento.

Ma queste dichiarazioni di un pentito di sì alto rango, considerazione e attendibilità non costituivano fatti e circostanze a favore di persona sottoposta ad indagine (ai sensi dell’art. 358 c.p.p.), cioè a mio favore? Ciò, specie in considerazione del fatto che io ero accusato, tra l’altro, di rapporti anomali con il capo mafia Stefano Bontate e Marino Mannoia era appunto uno dei suoi più stretti, intimi e fedeli collaboratori in misfatti. Nessuno più di lui poteva e doveva essere al corrente di tali rapporti.

Questi verbali, anzi stralci o frammenti di verbali, redatti dal P.M. il 2 e il 3 aprile 1993, non furono portati a conoscenza né del Tribunale che, dall’aprile 1994 in poi, mi avrebbe giudicato né della mia difesa. Quello del 3 aprile, redatto dalla Procura della Repubblica di Palermo, venne fuori soltanto durante il processo di primo grado per una domanda della difesa ed uno “scivolone” del pentito chiamato dall’accusa; il secondo, quello del 2 aprile 1993, redatto dalla Procura di Caltanissetta, soltanto per caso, dopo la conclusione del processo di 1° grado, cioè dopo la condanna, tanto da determinare la Corte di Appello a citare nuovamente il Marino Mannoia per chiarire il suo successivo comportamento.

Occorre qui soffermarsi un momento sull’udienza del 29.11.1994 del processo in Tribunale perché il lettore, non addetto ai lavori, si renda conto di come in giudizio sono tutelati i diritti della difesa anzi dell’imputato.

Quando, durante l’audizione del Mannoia, si venne a sapere del verbale redatto il 3 aprile 1993 a New York, alle opportune e pertinenti domande ed osservazioni non soltanto dei difensori ma anche del Presidente, il P.M. (Sost. Proc. Ingroia) ebbe a dire : “Questo interrogatorio non venne stralciato e trasmesso agli atti del processo Contrada, perché evidentemente venne ritenuto non rilevante ai fini del processo Contrada, poiché non riferiva alcuna circostanza a carico del dott. Contrada”. (verb. Udienza 29.11.1994 pag 117 Trib. Palermo V Sez. Penale – Processo Contrada).

In merito, mentre si può comprendere che il P.M., cioè l’inquirente e accusatore, non vada a cercare e acquisire prove a favore dell’indagato o imputato, non si può, però ammettere che, una volta venutone in possesso in un modo qualsiasi, non le porti a conoscenza, non solo della Difesa ma anche e principalmente dell’Organo giudicante. Eppure così è stato sia per il verbale del 2 che per quello del 3 aprile 1993. Con buona pace della norma di cui all’art. 358 c.p.p.!

Dopo circa un anno, cioè il 27 gennaio 1994, poco prima che iniziasse il processo a mio carico innanzi alla 5^ Sezione del Tribunale, il Procuratore Capo, il Procuratore Aggiunto e due Sostituti Procuratori della Repubblica di Palermo (dottori Caselli, Lo Forte, Scarpinato e Natoli) si recarono negli U.S.A. per interrogare nuovamente Francesco Marino Mannoia su tutta una serie di crimini perpetrati a Palermo negli anni passati. Nella circostanza, dimenticando forse ciò che aveva dichiarato ai Magistrati della Procura di Palermo e di Caltanissetta il 2 e il 3 aprile dell’anno precedente, enunciò accuse a mio carico, che possono così riassumersi :

  • Che tra me e il mafioso Rosario Riccobono era esistito uno stretto rapporto per cui si era diffusa negli ambienti di mafia la voce che il predetto fosse uno “sbirro”, cioè un delatore, un mio “confidente”;
  • Che il mafioso Stefano Giaconia era convinto che il suo arresto a Napoli il 10.06.1975 si era verificato a seguito di una “confidenza” che Riccobono mi aveva fatto;
  • Che l’omicidio di Giaconia, avvenuto il 26.09.1976, era stato voluto principalmente dal Riccobono perché lo aveva accusato di essere uno sbirro;
  • Che Riccobono era mio confidente, perché mi dava informazioni su delinquenti comuni od anche su mafiosi però non “intoccabili”, e viceversa, io ero suo “confidente” perché gli davo notizie su operazioni di polizia;
  • Che tale Angelo Graziano, mafioso scomparso (“lupara bianca”) nel 1977, mi aveva “procurato” un appartamento.

Questo è tutto ciò che ha riferito il Mannoia ai Magistrati di Palermo.

In proposito è sufficiente dire che del presunto mio rapporto con Riccobono ne avevano, sino a quel momento (27.01.1994), già parlato i pentiti Mutolo, Buscetta e Spatola e del presunto, anzi inesistente appartamento procurato da Angelo Graziano, lo stesso Mutolo.

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