L’arresto

Il 24 dicembre 1992 Bruno Contrada, stimatissimo funzionario del Ministero dell’Interno prima e del SISDE poi, sulla scorta delle accuse infamanti di quattro “pentiti”, viene arrestato a seguito di un ordinanza di custodia cautelare emessa il giorno prima dal Giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo, su richiesta della Procura della Repubblica, e viene condotto a Roma nel Carcere Militare di Forte Boccea.

I quattro “pentiti”, più correttamente definiti collaboratori di giustizia, sono: Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese e Rosario Spatola.

Gaspare Mutolo – pregiudicato di mafia, già imputato per omicidio, estorsioni, associazione a delinquere di tipo mafioso, traffico di stupefacenti ed altro, accusa Contrada di :

frequentare un appartamentino sito in via Jung 12, al 16° piano, che gli sarebbe stato messo a disposizione dal costruttore mafioso Angelo Graziano.

Questo appartamentino, a seguito di indagini condotte dalla stessa Dia, è risultato essere di proprietà dell’ingegnere Gualberto Artemisio Carducci, costruttore dello stabile, e ceduto in locazione al Magistrato Domenico Signorino.

In sede di interrogatorio in udienza Mutolo ha rettificato il tiro, dicendo che Graziano si era interessato affinché Contrada avesse la disponibilità del citato appartamentino tra la fine del 1975 ed l’inizio del 1977.

Evidentemente Mutolo non sapeva che il dott. Contrada nel luglio del 1975 aveva arrestato e denunziato Graziano Angelo ed un altro costruttore mafioso per estorsioni e tentativi di estorsioni compiuti a mezzo di esplosivo.

Ed il Mutolo non sapeva nemmeno che il successivo 23 agosto 1975, su rapporto del dott. Contrada, il Graziano ed il Cocuzza, che già erano in carcere, venivano ulteriormente denunciati per altre estorsioni con materiale esplosivo.

Nel mese di novembre del 1975 la Squadra Mobile diretta da Contrada compì un’operazione di notevolissima importanza, sgominando un’organizzazione criminale mafiosa pericolosissima, indicata successivamente come “Mafia della Costa, di cui facevano parte tutti e sei i fratelli Graziano.

Nel dicembre dello stesso anno, nella prospettiva che Angelo Graziano potesse essere scarcerato per decorrenza dei termini, Contrada propose alla Questura la misura di prevenzione del soggiorno obbligato per cinque anni.

Comunque il Graziano venne condannato e rimase in carcere fino al maggio del 1977.

Pochi giorni dopo essere stato scarcerato si seppe attraverso segnalazioni anonime che era rimasto vittima della “lupara bianca”.

Mutolo poi racconta :

che il capo della famiglia mafiosa di Partanna-Mondello, Rosario Riccobono, deceduto, gli aveva rivelato che il dott.Contrada era a disposizione dei capi più importanti di Cosa Nostra (tra i quali Inzerillo, Scaglione, Riina,Greco Michele), che incontrava personalmente ed ai quali aveva reso numerosi ”favori”, non specificati;

Mutolo sostiene, cioè, che quando i boss mafiosi si ammazzavano tra loro nella più impressionante guerra per bande che abbia mai insanguinato Palermo, il poliziotto più in vista della Città, Bruno Contrada, avrebbe incontrato ora l’uno, ora l’altro capo-mafia in luoghi pubblici o privati.

La non attendibilità di questa affermazione risulta evidente.

Nessun poliziotto in quegli anni in cui imperversava a Palermo una delle più tremende, se non la più tremenda e sanguinosa guerra di mafia avrebbe potuto essere amico e rendere “favori” contemporaneamente a diversi capi-mafia, perché un tale comportamento avrebbe significato sicuramente farsi ammazzare, in quanto le famiglie di mafia in lotta tra loro si cercavano l’un l’altra per attirarsi in tranelli ed agguati e per uccidersi.

Sarebbe stato impossibile non rimanerne coinvolti.

Altra accusa di Mutolo è :

che il capo-mafia Rosario Riccobono gli avrebbe riferito che la mafia aveva speso quindicimilioni per acquistare una macchina “Alfa Romeo” che il dott. Contrada doveva destinare ad una persona amica durante le festività natalizie del 1981.

Sono state svolte ricerche a tappeto su decine e decine di donne palermitane acquirenti o intestatarie di un’Alfa Romeo tra il 1980 ed il 1982. Nessuna donna portava a Contrada!

La verità è che Gaspare Mutolo è stato uno dei criminali mafiosi più perseguitati da Contrada, perché nel 1975, nel corso di un’operazione di polizia tesa a sventare un tentativo di estorsione ai danni dell’industriale Angelo Randazzo, il Mutolo aveva ucciso a sangue freddo il giovane agente di polizia Gaetano Cappiello, al quale Contrada voleva bene come ad un figlio.

E’ utile ricordare che Gaspare Mutolo ha accusato di collusione con la mafia il giudice Domenico Signorino, che esercitava le funzioni di P.M. sia nel processo del 1976 contro Mutolo sia nel maxi-processo, ed ha accusato inoltre i giudici Aiello, D’Antone, Barreca e Mollica, giudici che lo condannarono in Corte di Assise ed in Corte di Assise di Appello, nonché l’ex presidente della Corte di Appello di Palermo Carmelo Conti, che è stato prosciolto dal G.I.P. di Caltanisetta.

Tutto questo fa riflettere : almeno in un caso, quello di Carmelo Conti, Mutolo HA MENTITO!!

 

Tommaso Buscetta – Il 25 novembre 1992 il Buscetta conferma quanto detto in passato (aggiungendo tuttavia che egli non aveva una conoscenza diretta dei fatti raccontati) e cioè che Rosario Riccobono gli aveva suggerito di tornare a Palermo, assicurandogli che non sarebbe stato cercato dalla Polizia. Egli poi aveva chiesto ad un altro mafioso, Stefano Bontate, perché Riccobono facesse simili affermazioni ed aveva saputo che il Riccobono era amico di Contrada della Polizia di Palermo.

Su tali circostanze era stata aperta un’inchiesta, che si era conclusa con l’archiviazione e con un biglietto di auguri e di compiacimento inviato a Contrada a firma di Caponnetto. Il biglietto è agli atti del processo.

Nel novembre del 1992, però, Buscetta nel confermare le accuse del 1984 aveva detto che il rapporto tra Contrada e Riccobono era mal visto dagli altri mafiosi palermitani, contraddicendo in tal modo quanto avevano sostenuto Mutolo e Marchese .

Giuseppe Marchese il 4 novembre del 1992 dichiara: – che nel 1981, ritornando da una riunione di importanti capi mafia, suo zio Filippo l’aveva incaricato di avvisare Totò Riina che il dott. Contrada l’aveva informato che la Polizia si apprestava a perquisire la casa di borgo Molara, dove era nascosto il Riina. Il Marchese aveva avvisato quest’ultimo, che aveva lasciato tale abitazione per rifugiarsi a S. Giuseppe Iato.

Ma in un interrogatorio precedente, precisamente del 2 ottobre 1992, lo stesso Marchese aveva dichiarato che il Riina per motivi di sicurezza legati ai conflitti tra clan mafiosi, si era trasferito dalla villa di borgo Molara a S.Giuseppe Iato.

Per sfuggire ai mafiosi, dunque, e non alla Polizia.

In proposito occorre rilevare anche che la Polizia di Palermo venne a sapere che la casa di borgo Molara era stata rifugio di Riina soltanto nel 1984, allorchè il pentito Salvatore Anselmo rivelò che suo fratello, legato a Riina, era rifugiato nella villa di borgo Molara.

Rosario Spatola , personaggio che notoriamente era dedito all’uso di cocaina, il 16 dicembre 1992 – quindi soltanto sette giorni prima dell’arresto del dott.Contrada – lo accusa:

  • di essere un massone e di mantenere rapporti con i boss mafiosi attraverso la sua loggia.Nulla è emerso in proposito dalle accurate indagini effettuate dal Capitano della Direzione investigativa Antimafia Luigi Bruno.
  • di aver agevolato nella primavera del 1984 la fuga di Totò Riina, uno dei capi più spietati della mafia, e di altri capi mafia, che partecipavano ad una festa di matrimonio in un albergo di Cefalù, l’Hotel Costa Verde, avvisando il Riina stesso di un’operazione predisposta dalla polizia.

Nella primavera del 1984 Contrada da più di due anni aveva lasciato gli uffici della Polizia ed era Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario De Francesco.
Come avrebbe potuto conoscere i tempi ed i luoghi di un’azione di polizia, se da due anni non ne faceva più parte?!

Il 23 marzo del 1993 Rosario Spatola, interrogato negli uffici della Criminalpol a Roma, riferisce di un episodio svoltosi nel ristorante “Il Delfino” a Sferracavallo, una località vicino Palermo. Riferisce cioè di aver visto il dott. Contrada mangiare in compagnia del capomafia Riccobono in una saletta riservata del ristorante. Però, poiché egli non conosceva il dott.Contrada, dice di essere andato a mangiare al menzionato ristorante insieme ai fratelli Di Caro, massoni, suoi amici, che glielo avrebbero indicato come “fratello”.

Non solo i fratelli Di Caro al processo hanno smentito quanto affermato dallo Spatola, ma la saletta riservata del ristorante è risultata non essere mai esistita.

Interrogato di nuovo, questa volta negli Uffici della Procura della Repubblica a Palermo dai Magistrati della Procura di Palermo, lo Spatola non parla più di saletta riservata, ma di luogo appartato, indicando come tale una parte della sala non solo sopraelevata rispetto alla rimanente parte della sala medesima, ma ubicata in prossimità dei W.C.

Il dott. Contrada, conosciutissimo nella zona, ed il capomafia Riccobono sarebbero stati seduti, quindi, su un specie di palcoscenico e per giunta tra le due porte di accesso ai servizi igienici, con buona pace per la riservatezza!

Perché non è stato sentito nel corso delle indagini il proprietario del ristorante, che avrebbe così potuto subito smentire Spatola, come ha fatto poi al processo?
Prima, durante e dopo l’arresto del dott. Contrada occorreva valutare le propalazioni dei ”pentiti” alla luce di accurati riscontri che andavano effettuati con sollecitudine e con molta ponderazione, e ciò vale non solo per il dott. Bruno Contrada, ma per ogni cittadino! In particolare poi per Il dott. Contrada, perchè ciò andava fatto non nell’ interesse del dott. Contrada stesso, ma nell’interesse dello Stato, essendo le accuse rivolte contro un uomo delle Istituzioni che fino ad allora e per trent’anni il dr.Contrada aveva degnamente rappresentato.

Era in gioco, infatti, la credibilità delle Istituzioni stesse, specialmente se si tiene conto della strenua difesa operata nei confronti di Bruno Contrada da parte dell’allora Capo della Polizia, Prefetto Vincenzo Parisi, sia al momento dell’arresto sia al processo, dove era stato chiamato a testimoniare in qualità di teste dell’accusa.

A questo punto è di obbligo fare un’importante riflessione:

Mutolo, Buscetta e Marchese accusano il dott. Contrada di fatti commessi prima del 28 settembre del 1982, giorno in cui entra in vigore la legge n. 646 del 13/9/82, che inserisce nel c.p. l’art. 416 bis, che prevede il reato di associazione di tipo mafioso. Se non fosse intervenuta la dichiarazione di Spatola, dalla quale risultava che il dott. Contrada aveva agito di concerto con i boss mafiosi anche dopo tale data, al Contrada non avrebbe potuto essere contestato il grave reato previsto dal menzionato articolo 416 bis poichè, come è noto, nessuno può essere punito per un fatto se non è previsto espressamente dalla legge come reato. Occorreva dimostrare, quindi, per poter contestare a Contrada quel reato, che egli aveva agito di concerto con i boss anche dopo il 28 settembre 1982.

Sulla base di queste dichiarazioni il 24 dicembre del 1992 il dott.Contrada, funzionario che godeva di tutta la stima dei suoi superiori, viene accusato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, arrestato e su ordine della Procura di Palermo sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere .

Alle propalazioni dei primi quattro “pentiti”, dopo l’arresto del dott. Contrada e fino alla data di inizio del processo, si aggiungono quelle di altri collaboranti.

A parlare sono altri “pentiti” e precisamente: Francesco Marino Mannoia,Salvatore Cancemi e Pietro Scavuzzo.

Franceso Marino Mannoia conferma le accuse di Mutolo. Egli sostiene genericamente:

– che il dott. Contrada era amico di Riccobono;

– che aveva rapporti con Bontate;

– che Angelo Graziano gli aveva messo a disposizione un appartamentino.

In proposito occorre evidenziare che il Mannoia, pentitosi nel 1989, inizia a parlare del dott. Contrada soltanto il 24 gennaio del 1994.

Successivamente, però, è emerso che questo “pentito” era già stato sentito sul dott. Contrada nel corso di interrogatori condotti separatamente il 2 e 3 aprile 1993 a New York dalle Procure di Caltanissetta e di Palermo, che indagavano su omicidi eccellenti avvenuti in Sicilia, e che a tutti i Magistrati in quelle due circostanze il Mannoia aveva dichiarato di non sapere nulla su Contrada.

Solo al terzo interrogatorio, condotto nove mesi dopo dai procuratori di Palermo, il “pentito” ha improvvisamente “ricordato”.

Ebbene dei due primi verbali non è stata fatta parola al processo.

Hanno dimenticato evidentemente i Pubblici Ministeri che il Codice prescrive che le procure raccolgano anche le prove che possano scagionare gli imputati.

Salvatore Cancemi dichiara:

– che il dott.Contrada era “nelle mani” di Stefano Bontate;

– che nel 1959 aveva favorito la pratica per il porto d’armi di Stefano Bontate;

– che si era prodigato per fargli riavere la patente.

Non era materialmente possibile che il dott. Contrada favorisse la pratica per il rilascio del porto d’armi (pistola per difesa personale e fucile per uso caccia) a Stefano Bontate, perché questi aveva ottenuto il porto d’armi nel 1960, cioè prima che il dott.Contrada prendesse servizio a Palermo, dove arrivò soltanto alla fine del 1962.

Nel marzo del 1963, invece, il dott. Contrada aveva scritto alla Questura proponendo la revoca immediata del porto d’armi al Bontate, o comunque il non rinnovo, dal momento che il documento scadeva tre mesi dopo. Da quel momento Bontate entrò nel mirino della Polizia e non potè mai più ottenere un porto d’armi. Il fascicolo della questura relativa a questa pratica è andata al macero, ma la Procura avrebbe potuto avere notizie precise effettuando accurati accertamenti anche presso altri enti (archivio del Registro, archivio della Federazione della caccia ecc.)

Per quanto attiene la restituzione della patente, che era stata ritirata al Bontate allorchè venne sottoposto alla sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno, gli artefici di tale restituzione furono, come poi è risultato anche dalle testimonianze degli interessati, il dott. Francesco Faranda, dirigente all’epoca dei fatti, del Commissariato di Polizia che raccolse le informazioni sul fatto che realmente il Bontate per lavoro avesse bisogno della patente, il Questore Giovanni Epifanio ed il Prefetto Girolamo di Giovanni .

Le indagini, come sempre nel caso Contrada o sono inesistenti o estremamente lacunose.

Inoltre il Cancemi sostiene che il Contrada è un giocatore, ma Contrada ribatte di non aver mai amato le carte e di aver imparato a giocare a scopone nel Carcere Militare di Forte Boccea.

Pietro Scavuzzo , “pentito” della mafia trapanese, un anno dopo l’arresto del dott. Contrada ha rivelato ai Magistrati uno strano episodio circa la stima di un anfora antica; egli racconta che:

– nel gennaio del 1991 avrebbe portato un’anfora antica di notevoli dimensioni insieme a due mafiosi, Calogero Musso e Pietro Mazzara, in un appartamento di via Roma a Palermo.

Quest’anfora sarebbe stata stimata, alla presenza del dott. Contrada, da un esperto svizzero (contattato a sua volta tramite un non meglio identificato Ludwig) per essere poi donata dalla mafia al Vicequestore di Trapani Michele Messineo.

Scavuzzo avrebbe riconosciuto lo stabile e l’appartamento dove avvenne la stima, in via Roma n.459. Egli parla di un appartamento con videocitofono e di una donna sui cinquant’anni che avrebbe aperto la porta, inoltre descrive l’interno della casa. Scavuzzo in un primo momento parla di un appartamento sito “al secondo o al terzo piano”, mentre successivamente dice trattarsi di quello all’ottavo piano, cioè la sede degli uffici del Sisde.

Con indagini rapide ed accurate si sarebbe potuto accertare facilmente che al Sisde non c’era alcuna dipendente di età superiore ai trent’anni, che la descrizione dell’arredamento fatta dal pentito non coincideva per niente con quella dell’Ufficio del Sisde, che in quell’ufficio era impossibile per chiunque entrare senza il permesso del capo-centro e che infine all’interno di quegli uffici esisteva una vigilanza armata24 ore su 24, con un piantone che aveva un mitra carico appoggiato sulla scrivania. Agevolmente si sarebbe potuto rilevare anche che la descrizione della porta fatta da Scavuzzo non corrispondeva: lo Scavuzzo aveva parlato di una porta semplice, mentre la porta degli Uffici del Sisde era una porta particolare del tipo di quella delle banche, con una camera di decantazione, che non permetteva che si aprisse la porta interna se prima non si chiudeva alle spalle del visitatore la porta esterna.

In conclusione il dott. Contrada si sarebbe incontrato negli uffici del Sisde con tre delinquenti mafiosi di Trapani (per giunta ricercati), che trasportavano un’anfora di notevoli dimensioni, per consentire ad un esperto svizzero di stimarne il valore in sua presenza.

In proposito il Capitano della DIA, Luigi Bruno, ha detto di non aver trovato alcun appartamento, rispondente alla descrizione fatta dal pentito trapanese Scavuzzo, nel quale avrebbe conosciuto Contrada, presentatogli dai boss della sua stessa provincia. Il capitano ha riferito infatti che sono stati visitati, senza esito, più di cento appartamenti della zona. Nessuno rispondeva alle caratteristiche riferite dal pentito.

Altri pentiti hanno poi testimoniato contro Contrada nel corso del processo, ma sono stati tutti puntualmente smentiti da quelli che avevano citato nelle accuse rivolte a Contrada.

Da tutto quanto sopra descritto emerge chiaramente che le indagini sono state svolte con una trascuratezza e una superficialità tali da far sorgere il fondato dubbio che esse siano state condotte intenzionalmente in tal modo.

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