“I due poliziotti” di Lino Iannuzzi

I due poliziotti

di Lino Iannuzzi

La storia delle vite parallele di Bruno Contrada e di Gianni De Gennaro – Caino, maledetto Caino – Avevo pronta la pistola con il colpo in canna, poi ho guardato la fotografia di mio figlio in divisa di poliziotto e non mi sono più sparato – Morirò qui dentro, in carcere

In basso è presente anche la versione stampabile in formato DOC.

Un singolare destino accomuna i due poliziotti,Bruno Contrada e Gianni De Gennaro. Un destino crudele e beffardo. Crudele per Contrada,la vittima, beffardo per De Gennaro, il carnefice. La carriera di Gianni De Gennaro è cominciata la vigilia di Natale del 1992, quando ha fatto arrestare il suo collega Bruno Contrada, e termina oggi, proprio quando le porte del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere si sono chiuse,forse per sempre,dopo 15 anni di processi,alle spalle di Contrada.: “Avevo pronta la pistola con il colpo in canna – mi ha detto Contrada,seduto sulla branda della cella – poi ho guardato la fotografia di mio figlio con la divisa della polizia,e non mi sono sparato. Morirò qui dentro,è come fossi già morto”. Il “morto” Contrada ha afferrato il vivo De Gennaro e l’ha consumato:la loro storia è cominciata insieme, e insieme finisce.

Era già stato scritto, come in un racconto di Borges. “Caino, sia maledetto Caino”, aveva urlato Adriana, la moglie di Contrada, nella stanza dell’ospedale di Palermo,dove avevano trasportato d’urgenza il marito, svenuto nell’aula del tribunale quando il pm aveva introdotto l’ennesimo “pentito” che lo accusava di intelligenza con la mafia. Bruno Contrada aveva riaperto gli occhi nella sala di rianimazione, aveva gridato: “Vogliono annientarmi…”, aveva implorato che lo lasciassero morire, aveva tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, aveva strappato dalle mani dell’ infermiere la siringa infilandosela nel collo… E’stato in quel momento che la donna piccola e minuta ha preso a urlare: “Caino, maledetto Caino, è Caino che me lo ha ammazzato…”.

“Caino – ha spiegato ai giornalisti che,richiamati dalle urla, le si affollavano intorno Adriana Del Vecchio,insegnante di lettere e latino in pensione – è un collega di mio marito, è lui che ha voluto che Bruno finisse in carcere. E’qualcuno che ha capito che la Sicilia e la mafia potevano essere usate come trampolino di lancio per fare carriera. Ma non ha trovato il campo libero,perché davanti a lui, molto più avanti per anzianità e nei ruoli, c’era Bruno Contrada. Doveva eliminarlo, è lui l’autore della congiura, è lui che ha arruolato e ha imbeccato i ‘pentiti’ che lo accusano…”. La maledizione di Adriana ha accompagnato Gianni De Gennaro, come l’ombra di Banco, per tutti questi lunghi 15 anni della sua brillante carriera e l’ha atteso, paziente e inesorabile, sulla soglia del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere.

 

Le lotte di potere in seno agli apparati dello Stato – Come è nata la Dia, la nostra polizia politica, e come De Gennaro se ne è impadronita – La fabbrica dei ‘pentiti’ – I processi politici mascherati da processi antimafia

Bruno Contrada è stato il più famoso poliziotto di Palermo, la memoria storica della lotta alla mafia, uno spietato cacciatore di mafiosi, quando non c’erano ancora i “pentiti” e le intercettazioni ambientali, quando bisognava sporcarsi le mani con i “confidenti”, rischiando ogni giorno la vita e l’onore: ogni giorno si poteva venire uccisi dalla mafia assieme al confidente,o venire disonorati dall’antimafia con l’accusa di essere il confidente del confidente. Gianni De Gennaro ha fatto fuori Contrada quando questi era già passato al Sisde e aveva preparato per incarico del governo il progetto di trasformare il servizio segreto civile in una direzione antimafia. De Gennaro, allora dirigente della squadra mobile, aveva un altro progetto, caro a Luciano Violante e ai giustizialisti del Pci e ai magistrati professionisti dell’ antimafia, quello di organizzare la Dia, una direzione antimafia svincolata dai servizi e dalla stessa direzione generale della polizia e dal governo: quella che presto il presidente Cossiga avrebbe definito, chiedendone la soppressione, “la nostra ‘polizia politica’, la nostra Ovra, la nostra Gestapo, il nostro Kgb”, lo strumento più efficace per liquidare gli avversari con l’uso e l’abuso dei “pentiti” e dei processi politici. Liquidato Contrada e il suo progetto, De Gennaro creò la Dia e ne assunse il controllo, e inventò la “fabbrica dei pentiti”, divenne il “Signore dei “pentiti”. De Gennaro è stato l’artefice vero della macelleria politica in nome dell’antimafia,più di Luciano Violante, più dei magistrati professionisti del giustizialismo. Come avrebbe potuto Luciano Violante liquidare gli avversari politici con la commissione parlamentare antimafia; come avrebbero potuto le procure indagarli e i giudici di Palermo processarli, se De Gennaro, il suggeritore, non avesse fornito a getto continuo all’uno e agli altri i “pentiti”? Come avrebbero potuto processare Contrada, il suo collega che gli dava ombra, e dopo di lui i politici, Andreotti e Mannino e Musotto e i magistrati garantisti, Corrado Carnevale e Barreca e Prinzivalli, e poi naturalmente Berlusconi, indagato per riciclaggio e per strage, e Marcello Dell’Utri, che è ancora sotto processo, e tutti gli altri, se De Gennaro, il regista, con la Dia non avesse reclutato, addestrato e pagato i “pentiti” per accusarli?

 

De Gennaro soffia Buscetta a Contrada e lo riporta in Italia – Le due facce e i due verbali di Buscetta – E’il boss Riccobono che fa da confidente a Contrada oppure è Contrada il confidente di Riccobono?

 

Il primo “pentito” su cui De Gennaro mette le mani è, niente di meno, Tommaso Buscetta. Contrada è ancora in piena attività di servizio ed è proprio lui che ha scovato Buscetta in Brasile, lo ha contatto attraverso un suo collaboratore, il capo della squadra mobile Ignazio D’Antone, poi passato anche lui al Sisde, e si appresta a recarsi di persona a prelevarlo per portarlo in Italia. De Gennaro lo precede, gli soffia Buscetta, come gli soffierà il progetto della direzione antimafia,lo porta in Italia e lo consegna a Giovanni Falcone. Lo consegna per modo di dire, perché Buscetta rimarrà sempre e soprattutto nelle mani di De Gennaro, per tutto il tempo che resterà in Italia,e anche quando, dopo il maxiprocesso, sarà spedito negli Stati Uniti, sotto la sorveglianza dei Marshall. Buscetta rimarrà sempre sotto il controllo e la gestione di De Gennaro, che non lo molla per un momento,e lo presta a Falcone, prima, a Violante e a Caselli, otto anni dopo, solo dopo averlo confessato e comunicato, ed essere sicuro di ciò che il “pentito” dirà e di ciò che non dirà. Buscetta non è di Falcone, non è di Violante o di Caselli, Buscetta è di De Gennaro, e guai a chi glielo tocca. De Gennaro è discreto,non compare, sta sempre dietro le quinte,e tace. Come il ventriloquo, De Gennaro parla per bocca di Buscetta, come parlerà, e accuserà e fare processare e farà condannare, con la voce di tutti gli altri “pentiti”.

Tanto per cominciare, De Gennaro, prima ancora di consegnargli Buscetta, metterà in guardia Falcone: non fidarti di Contrada, gli dice, Buscetta mi ha confidato che Contrada a Palermo è in combutta con Cosa Nostra, in particolare è il “confidente” del boss Rosario Riccobono. In realtà, Buscetta a Falcone, nel corso dei lunghi e riservatissimi interrogatori(se ne conoscerà il contenuto soltanto dopo mesi e solo al maxiprocesso:proprio come(non)è avvenuto e(non)avviene oggi, con i presunti “eredi” di Falcone,tutto è già sui giornali il giorno dopo)dirà, farà verbalizzare e firmerà il contrario: è Rosario Riccobono il confidente di Contrada e non viceversa, la mafia lo sa o lo sospetta, al punto che nell’ambiente parlano di Riccobono come dello “sbirro” (e presto lo uccideranno).

Sarà solo molti anni dopo, e dopo l’assassinio di Falcone, che Buscetta, ripescato da De Gennaro negli Stati Uniti, dove Falcone l’aveva spedito dopo il maxiprocesso, interrogato dagli “eredi” di Falcone che indagano su Contrada, cambierà radicalmente versione: è Contrada, dirà, che fa il confidente di Riccobono, lo informa delle indagini su di lui e lo avverte in anticipo delle retate predisposte per catturarlo(confrontare i due verbali di interrogatori, firmati da Buscetta a quasi dieci anni di distanza, per credere!) E’ solo un gioco di parole, uno scambio di ruoli tra il boss e il poliziotto, il soggetto che diventa complemento oggetto e viceversa: ma basterà a fare di Contrada un rinnegato. Richiesto di spiegare perché ha letteralmente ribaltato,a distanza di otto anni,le sue dichiarazioni, e ha detto a Caselli esattamente il contrario di ciò che aveva detto a Falcone, Buscetta risponde: “Quel verbale del 1984 fu una imposizione di Falcone. Io non volevo farlo, fu lui a costringermi. Il dottor Falcone,che mi aveva sempre interrogato da solo e scriveva personalmente il verbale, quel giorno mi propose di fare assistere all’interrogatorio il commissario Ninni Cassarà. Io rifiutai dicendo che non mi fidavo della polizia di Palermo, ché c’era corruzione e legami con Cosa Nostra: Falcone allora mi chiese di fare i nomi,e io di nome in nome arrivai pure a Contrada. Falcone insistette che bisognava verbalizzare. C’era grande tensione e il verbale venne così, era nato male…”. A questo punto, gli domandano perché, una volta che era stato costretto a parlarne, non aveva detto a Falcone di Contrada tutto quello che dirà, otto anni dopo, a Caselli. E Buscetta si giustifica così: “Effettivamente Falcone, che io stimavo, non approfondì l’argomento. C’è stata forse una manchevolezza da parte sua. Si vede che, se manca qualcosa fu Falcone che non fece le domande…”. Insomma, se Buscetta non accusò Contrada a Falcone, fu perché Falcone non gli fece la domanda giusta. Otto anni dopo, la domanda giusta gliel’ha fatta Caselli, e Buscetta gli ha finalmente risposto a tono, inguaiando Contrada.

Ignazio D’Antone sarà a sua volta punito per essersi permesso di contattate Buscetta in Brasile prima di De Gennaro:accusato a sua volta di intelligenza con la mafia, processato e condannato in via definitiva ancor prima di Contrada, è già da tempo rinchiuso nel carcere militare dove l’ha appena raggiunto Contrada. D’Antone venne anche coinvolto, e Contrada attraverso di lui, nell’attentato subito da Falcone nella sua casa all’Addaura. Si insinuò che lui, o chi per lui, avesse fatto sparire le prove che l’attentato poteva essere mortale. Era un tentativo di coinvolgere Contrada in qualcosa di ben altra portata che non fossero gli intrallazzi con i confidenti: come l’accusa che Contrada fosse stato personalmente presente sulla scena dell’attentato di via D’Amelio che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Contrada come il servizio segreto deviato dalla massoneria e dai “sistemi criminali” che, per conto di Giulio Andreotti, ammazza Falcone e Borsellino e con le stragi distrugge la prima Repubblica, per far posto a Marcello Dell’Utri e a Silvio Berlusconi. Il processo a Contrada doveva essere la prova generale del processo a Andreotti, il processo a Andreotti non per associazione mafiosa, come fu, ma per strage e complotto contro la Repubblica. Ma questa è un’altra storia,la pista principale poi abbandonata, e se ne parlerà in un’altra puntata.

 

Totuccio Contorno doveva essere negli Stati Uniti, ma lo trovano in Sicilia,nel triangolo della morte,in mezzo a 17 cadaveri – Come e perché Luciano Violante per difendere De Gennaro ricatta Giovanni Falcone

De Gennaro mette le mani anche sull’altro “pentito” del maxiprocesso, Salvatore Contorno. Anche Contorno è, o dovrebbe essere, negli Stati Uniti, sempre spedito per precauzione da Falcone,e sotto la protezione della polizia americana. Ma non è così. Il 26 maggio 1989 Contorno viene sorpreso,a fatica e con sorpresa riconosciuto, e catturato dalla squadra mobile di Palermo in Sicilia, a migliaia di chilometri di distanza dal New Jersey, in un casolare e insieme a un suo cugino e a un gruppo di fuoco di picciotti armati di lupara e di mitra, nel triangolo della morte Bagheria-Altavilla-Casteldaccia, dove nei giorni precedenti sono stati ammazzati diciassette mafiosi, uno al giorno, e tutti appartenenti alle cosche dei “corleonesi”, nemici di Contorno e di suo cugino.

Chi li ha ammazzati? Cosa ci fa Contorno in Sicilia? Perché ha lasciato la protezione americana ed è tornato segretamente in Sicilia, all’insaputa della stessa polizia di Palermo? Chi lo ha chiamato? Chi lo ha protetto? Non si sa niente, non si capisce niente, finché alla commissione antimafia arrivano le bobine delle intercettazioni delle telefonate intercorse tra Contorno, proprio quando si trova in Sicilia, e De Gennaro, che all’epoca è già vicecapo della Dia. Non solo De Gennaro nelle telefonate mostra di conoscere perfettamente i movimenti del “pentito”, ma Contorno al telefono gli parla confidenzialmente e gli dà del “tu”, e lo sbirro gli chiede insistentemente se “ci sono novità”. Ce ne sarebbe già quanto basta per sospendere De Gennaro dal servizio e per sottoporlo al procedimento disciplinare, se non addirittura a un processo penale con l’accusa di favoreggiamento e di mandante di “assassinii di Stato”.

Invece, per interrogare Contorno si riunisce in seduta segreta un comitato ristretto della commissione parlamentare antimafia, e di esso entra a far parte Luciano Violante, che all’epoca è vicepresidente della commissione. I verbali di questa riunione sono tuttora stranamente “segretati”, ma chi li ha letti ha scoperto che Violante per l’occasione non si è limitato a difendere a spada tratta De Gennaro(come ha sempre fatto e fa anche oggi che De Gennaro è stato licenziato), ma ha assediato Contorno di domande tanto documentate di notizie che al momento potevano conoscere solo De Gennaro e lo stesso Contorno, quanto oblique e capziose, nel tentativo di fargli ammettere che a conoscenza della sua fuga dagli Usa e del suo ritorno in Sicilia non era stato solo De Gennaro, ma lo sapeva (e magari l’aveva autorizzato)anche Giovanni Falcone, all’epoca alla direzione degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Con un obiettivo fin troppo scoperto: quello di trasferire le responsabilità dell’affare da De Gennaro a Falcone, che da quando collabora con il ministro Claudio Martelli e con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti è considerato da Violante e dai suoi amici un “traditore”. E’un ricatto: prima di punire De Gennaro, dovete infamare e dovete far fuori anche Falcone. Esattamente come Violante farà molti anni dopo,in occasione della “macelleria messicana” al G8 di Genova. Membro del comitato parlamentare che deve indagare (quando si indaga su De Gennaro, nell’organismo che deve indagare c’è sempre lui) Violante sostiene che,qualsiasi cosa sia successo a Genova, “la responsabilità è politica e non amministrativa”, e che “il dottor De Gennaro ha rivestito un ruolo importante nella difesa della democrazia italiana”. Morale: De Gennaro è intoccabile, e il responsabile di quanto è successo a Genova non è il capo della polizia, ma il ministro dell’Interno,che è il forzaitaliota Scajola.Da allora Scajola, graziato per i fatti di Genova assieme a De Gennaro, non farà che difendere e lodare il suo capo della polizia. Fino ad oggi, fino a quando De Gennaro sarà destituito, Scajola continuerà a difenderlo e a lodarlo pubblicamente in ogni occasione. Ricattato da Violante per conto di De Gennaro, Scajola è rimasto grato per la vita ai suoi ricattatori.

De Gennaro prima incastra Andreotti poi scarica Caselli

 

E De Gennaro non è un ingrato, e volentieri ricambia, ogni volta che Violante è in difficoltà, non esita ad esporsi per difenderlo. Come quella volta che Giovanni Brusca, il braccio destro di Totò Riina, catturato e “pentito”, racconta che ha viaggiato in aereo da Palermo a Roma con Luciano Violante e hanno concordato insieme la trappola per Andreotti (la prima cosa è provata,la seconda no). Quando esplodono le dichiarazioni di Brusca, De Gennaro si precipita a rintuzzarle dicendo tutto il male possibile del mafioso e tutto il bene possibile del suo compare del Pci. Ma esagera, e costringe Giorgio Napolitano, che al momento è ministro dell’Interno, a rimbrottarlo pubblicamente: non tocca a lei, che è un funzionario dello Stato, gli dice, intervenire pubblicamente in queste questioni.

Non altrettanto solidale De Gennaro sarà sempre con il terzo membro della combriccola, il procuratore Giancarlo Caselli, spedito in fretta da Torino a Palermo,giusto in tempo per processare Contrada, Andreotti, Carnevale e compagnia cantando. E’ stato lo stesso Andreotti a rivelare che fu proprio De Gennaro,che aveva arruolato e fornito a Caselli i “pentiti” per processarlo, a recarsi a casa sua per tranquillizzarlo: caro presidente, gli disse De Gennaro, non stia a preoccuparsi, perché a tutti questi “pentiti” e alle loro accuse mancano i riscontri e le prove, alla fine non potranno che assolverla. Nei riguardi di Caselli, che ci fa la figura del tonto della compagnia, De Gennaro fa anche di peggio. Nominato capo della polizia con il consenso anche della Casa della Libertà, ed essendo ormai scontata l’assoluzione di Andreotti, i giornalisti di “Repubblica” che a De Gennaro non hanno mai smesso di voler bene, prima durante e dopo, al punto da indurre Francesco Cossiga a presentare un’interrogazione al ministro degli Interni per accertare se addirittura di De Gennaro non fossero a libro paga, “per chiarire definitivamente come stanno le cose tra Caselli e De Gennaro”, scrivono: “E’ già dal 1992 che i rapporti tra il nuovo capo della polizia e i magistrati di Palermo sono, se non agitati, per lo meno problematici. Pur avendo lavorato di buona lena per incastrare Andreotti, De Gennaro non ha mai pensato che le prove raccolte fossero sufficienti e che fossero solidi i riscontri alle dichiarazioni dei ‘pentiti’ ed ha sempre espresso i suoi dubbi, convinto come è sempre stato che Andreotti andasse prosciolto già nelle indagini preliminari. Ma rimase inascoltato e finì incastrato da protagonista nella vicenda, con sulle spalle il mantello del perfido burattinaio…”. Infatti, Andreotti non lo ha mai nominato direttamente e mai lo ha accusato, ma ha sempre parlato di un “suggeritore”: dei tre, scartato Caselli per insuperabile incapacità, non restavano che Violante o De Gennaro. Ma Violante è piuttosto l’ispiratore dell’operazione, il suggeritore dei pentiti indispensabili al processo non poteva essere che De Gennaro. Caselli farà anche l’errore di scrivere a “Repubblica” per respingere sdegnosamente le “illazioni” dei giornalisti: De Gennaro non mi ha mai manifestato i suoi dubbi, scrive, e comunque contro Andreotti le prove c’erano, e in abbondanza. Risate dei giornalisti, di Andreotti, di De Gennaro, e dei lettori.

 

Marcello Pera corre in soccorso di De Gennaro e impedisce a Contrada di denunciare i suoi carnefici

Non sono solo Luciano Violante e i giustizialisti della sinistra ad accorrere a coprire i misfatti di De Gennaro e a maramaldeggiare su Contrada. Dopo quasi dieci anni di processi, Contrada, condannato a 10 anni in primo grado, viene clamorosamente assolto in appello con formula piena e annuncia per il giorno dopo la lettura della sentenza una conferenza stampa: Contrada, scrivono i giornali e preannuncia la televisione domani rivelerà i retroscena della congiura ordita contro di lui e farà i nomi e i cognomi dei congiurati. E’ a questo punto che compare sul “Corriere della sera” una intervista del senatore Marcello Pera, all’epoca responsabile di Forza Italia per i problemi della Giustizia, che ha il sapore amaro di un invito a tacere, è a tutti gli effetti una censura e un veto:”Non è più il momento – dice Pera – delle polemiche e la decisione del tribunale di Palermo, che ha assolto il dottor Bruno Contrada, non deve servire ad avvelenare ancora il clima del Paese”. Insomma,intende Pera, Condrada alla fine è stato assolto: che altro vuole? Si contenti di essersela cavata così a buon mercato, e se ne stia zitto e soprattutto non si azzardi a chiamare in causa il capo della polizia. Quello che vorrebbe e dovrebbe essere il difensore e il garantista per antonomasia del Partito della Libertà è in combutta con lo sbirro dei “pentiti” e il carnefice degli stessi esponenti della Casa della Libertà, e chiude la bocca alla vittima. Non è un caso isolato: il connubio Pera-De Gennaro dura nel tempo e organizza anche convegni e dibattiti in comune, fino al punto di provocare la reazione indignata di Filippo Mancuso, illustre e stimato magistrato veramente garantista e poi ministro della Giustizia del governo Dini, epurato ad personam perché vuole mandare gli ispettori a Milano e a Palermo. Mancuso, invitato a fare da relatore a uno di questi convegni organizzati dal filosofo delle scienze e dallo sbirro, rovescia il tavolo: con De Gennaro no, esclama, e lo scaccia dalla tribuna.

Intanto Contrada disdice la sera stessa dell’intervista di Pera la conferenza stampa e contemporaneamente invia un telegramma al capo della polizia Gianni De Gennaro: “Nel frastuono di voci dissonanti voglio che una sola si senta e sovrasti su tutte: quella della mia assoluta dedizione, passata presente e futura, alla polizia di Stato e al suo capo”. Questo è l’uomo, lo sbirro tutto di un pezzo che ha giurato che fin quando De Gennaro sarà il capo della polizia, non parlerà

 

Rosario Spatola ‘testimone oculare’ di un pranzo che non c’è stato nella saletta riservata che non è mai esistita – Alla procura di Palermo i ‘pentiti’ si confessano e cambiano versione a volontà – Il ‘pentito’ è tanto più credibile quanto più è assassino e quanta più gente ha ammazzato

 

Contrada non parlerà mai più. Subirà in silenzio l’ignominia delle calunnie di una dozzina di “pentiti” reclutati dalla Dia di De Gennaro, che finiranno per smentirsi e per accusarsi a vicenda: come Rosario Spatola, che dice di averlo visto pranzare con Rosario Riccobono nella saletta riservata di un noto ristorante di Palermo che, si scoprirà con le planimetrie esibite dagli avvocati della difesa, non ha mai avuto una saletta riservata. Spatola, oltre che clamorosamente smentito, finirà espulso dal programma di protezione perché con i soldi dello stipendio dello Stato fa uso e traffico di stupefacenti. A sua volta Spatola si vendicherà rivelando che lui e gli altri “pentiti” sono stati “combinati” e che Gaspare Mutolo, il “pentito” primo tra gli accusatori di Contrada (e sempre dopo aver fatto quattro chiacchiere con De Gennaro), riceve a cena a casa sua gli altri “pentiti” esibiti dall’accusa, per concordare le deposizioni, e i giornalisti portavoce della procura perché pubblichino le accuse a Contrada prima ancora che siano formulate nell’aula del processo. Nella sentenza di condanna che conclude il processo di primo grado Mutolo è presentato come la “bocca della verità” ed è descritto come il “pentito” più attendibile perché è di tutti il più assassino, quello che ne ha ucciso più di tutti. Gli domandano: quanti omicidi ha fatto? E Mutolo risponde: “Ma guardi, io tra gli omicidi e gli strangolamenti, insomma, sono più di 30,30 omicidi che ho fatto in tre anni, dal ’73 al ’76, e in un piccolo periodo dall’81 all’82…”. Perché,scrivono i giudici nella sentenza di condanna, “un primo indice di affidabilità delle notizie riferite dal collaboratore di giustizia deve rinvenirsi nello spessore mafioso degli uomini d’onore”. Come dire che la credibilità di un “pentito” che accusa la si misura in proporzione agli omicidi che ha commesso e allo “spessore mafioso” dei compari che ha frequentato. Più il “pentito” è mafioso, più è scellerato, più è ignobile, più è assassino, più ne ha assassinati, più è credibile, più le sue accuse rispondono sicuramente a verità. E chi è più credibile di Gaspare Mutolo, detto “u saittuni”, il topo di fogna?

 

Francesco Di Carlo accompagna Stefano Bontate e Mimmo Teresi a Milano a far visita e a baciare ilvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri – De Gennaro lo va a prendere nelle carceri inglesi e gli fa un’offerta che Di Carlo non può rifiutare – Cosimo Cirfeta viene ‘suicidato’ in carcere con una bomboletta di gas

 

Così Francesco De Carlo, reclutato da De Gennaro nelle carceri inglesi, dove era detenuto per traffico di stupefacenti, e dove gli inviati di De Gennaro gli hanno fatto un’offerta che non poteva rifiutare: se ci dici qualcosa su Contrada, ti tiriamo fuori di qui, facendoti risparmiare sette anni di carcere, e ti riportiamo libero e stipendiato in Italia… E’ lo stesso Di Carlo che sosterrà di aver accompagnato a Milano da Berlusconi e da Dell’Utri i capi di Cosa Nostra Stefano Bontate e Mimmo Teresi, per trattare di “affari” e per garantire che la mafia non farà del male ai figli del padrone della Fininvest. Si scoprirà e si proverà, ma soltanto dopo anni dalla deposizione e nel corso del processo d’appello a Dell’Utri, che nel periodo in cui Di Carlo avrebbe accompagnato Bontate e Teresi a far visita a Berlusconi (e ad abbracciarlo e baciarlo, Di Carlo testimone oculare), Bontate era recluso sotto costante sorveglianza al soggiorno obbligato a Pescara e poteva muoversi sotto scorta solo per presenziare al suo processo in corso a Palermo, e Teresi era al soggiorno obbligato a Foligno. Di Carlo sarà poi che sorpreso nel cortile del carcere in cui è detenuto mentre arruola a sua volta altri “pentiti” per accusare Dell’Utri e concordare le accuse. Cosimo Cirfeta, il “pentito” che ha sorpreso e denunciato Di Carlo e i “pentiti” suoi complici, è stato “suicidato” nella sua cella con una bomboletta di gas.

 

Francesco Marino Mannoia non sa niente di Contrada e lo dichiara a verbale, ma il verbale sparisce – Come è perché il mafioso Mannoia è più ‘uomo d’onore’ dei pm di Palermo

 

Il caso del “pentito” Francesco Marino Mannoia è ancora più clamoroso e scandaloso. Nel corso del processo di primo grado Mannoia depone che Contrada e Riccobono facevano i confidenti l’uno dell’altro”, e Contrada viene condannato. Al processo di appello gli avvocati di Contrada scoprono che esistono i verbali di due precedenti interrogatori di Mannoia, dove il “pentito”, richiesto dai pm se sa e può dire qualcosa di Contrada, dichiara di non saperne assolutamente nulla. Il presidente della Corte d’appello, la prima, quella che assolverà Contrada, domanda ai pm perché i verbali di quei due interrogatori sono stati nascosti e non sono stati portati al processo. Il pm Antonio Ingroia gli risponde che non hanno portato quei verbali perché “li avevamo ritenuti irrilevanti perché non riferivano alcuna circostanza a carico di Contrada” e perché l’accusa “è interessata solo ai documenti che sono a sostegno delle tesi accusatorie”. Lo Stato di diritto e la Costituzione si declinano così nella cultura dei professionisti dell’antimafia. Persino Mannoia, mafioso e delinquente e assassino, dimostrerà di avere più senso della giustizia degli inquisitori della procura di Palermo, e in particolare di questo Ingroia che nasconde i documenti della difesa e si esalta solo con quelli che accusano. Richiamato a deporre due anni dopo dalla Corte d’appello che assolverà Contrada, Mannoia dichiara: tutto quello che vi ho raccontato non è mai stato a mia diretta conoscenza, l’ho solo sentito dire in giro, “mi auguro che voi vogliate restituire l’onore a quest’uomo”. Come quei giudici faranno, il 4 maggio del 2001, nove anni dopo l’arresto della vigilia di Natale del ’92, lo assolveranno con formula piena, perché “il fatto non sussiste”. E con questa motivazione: “La sola frequentazione di Contrada con i boss mafiosi, senza il corredo di ulteriori manifestazioni significative o indizianti, non costituisce prova della sua volontà di prestare sostegno all’associazione criminosa. Le accuse dei collaboranti, alcuni dei quali possono essere portatori di sindrome rivendicatoria, difettano in linea di massima della necessaria specificità, riducendosi a mere affermazioni basate su apprezzamenti personali o considerazioni soggettive, mentre le circostanze esaminate e considerate come elementi di riscontro,si rivelano prive di valore probatorio”. L’assoluzione, in effetti, è valsa a Contrada solo la restituzione della sciabola d’ordinanza che gli era stata sequestrata, nove anni prima, al momento dell’arresto. Presto la Cassazione annullerà la sentenza di assoluzione e i giudici del nuovo processo d’appello gli rifileranno, pari pari, i dieci anni di galera che gli avevano inflitto i giudici di primo grado e che la prima Corte d’appello gli avevano tolti. In compenso, nonostante l’intervenuta condanna, non gli sarà sequestrata nuovamente la sciabola.

 

L’anfora rubata dalla mafia e che non è mai esistita, l’amante di Contrada a cui non è stata mai regalata l’Alfa Romeo, la parrucchiera che scopre i segreti dei boss sotto il casco della permanente, la medium che ha visto e sentito in sogno Giovanni Falcone, le notizie ricevute dai ‘pentiti’ dall’oltretomba, il sorriso che inganna nella terra di Pirandello

Degli altri “pentiti” non metterebbe nemmeno conto parlare, la tragedia viene sommersa dalla farsa. Tale Pietro Scavuzzo, più che rispettabile per il numero degli assassinii commessi, e quindi più che credibile, racconta che un giorno è salito in un appartamento di via Roma a Palermo, accompagnato da un esperto archeologo, presentatogli da un cittadino svizzero di nome Ludwig, e ricevuti da una signora dell’apparente età di 50-55 anni,che li fa accomodare in una stanza per valutare l’autenticità e il prezzo di mercato di un’anfora antica, che è stata regalata dalla mafia a Contrada, e che a sua volta Contrada deve regalare al vice questore di Trapani. Mesi e mesi di indagini e di accertamenti, decine e decine di agenti alla caccia, milioni di spese per individuare l’appartamento, l’archeologo, lo svizzero Ludwig, la signora cinquantenne, l’anfora antica. Senza risultato: l’appartamento, l’archeologo, Ludwig, la signora cinquantenne, l’anfora non si trovano, non se ne scopre l’ubicazione, il numero civico, né si trova il nome, né il cognome dei supposti protagonisti della seduta archeologica, il vice questore, perquisito lui, la casa del padre, le case dei fratelli, delle sorelle, dei figli, non si trovano anfore, niente di niente, non esistono. Ma che significa? “Tuttavia – scrivono i giudici nella sentenza di condanna – la mancata individuazione dell’appartamento non è idonea a smentire la veridicità delle dichiarazione del collaborante, atteso che il periodo riportato colloca il momento dell’incontro in un periodo in cui era possibile la presenza di Contrada a Palermo…”. Nessuno l’ha visto, nessuno li ha visti, nessuno processualmente esiste, e tuttavia “ci poteva stare, si potevano incontrare,possono esistere” e possono aver nascosto, chi sa dove, l’anfora della mafia che non si trova e non sarà mai più trovata. Un altro “pentito” denuncia che sono scomparsi 15 milioni dai conti di Riccobono e che il boss in realtà li ha regalati a Contrada, che ci ha comprato un’auto AlfaRomeo per regalarla alla sua amante. Perché, come sostiene e anche dimostra l’accusa, a Contrada “piacciono le donne”, e la mafia gliene offre a bizzeffe e gli da i soldi per mantenerle. Ricerche per mesi dell’amante di Contrada e dell’AlfaRomeo, inchiesta a tappeto su tutte le signore di Palermo che posseggono un’AlfaRomeo, finché gli avvocati dimostrano che quei 15 milioni Riccobono li ha spesi per regalare un’auto alla moglie, otto milioni, e un’auto alla madre, sette milioni.

Tra i testi dell’accusa c’è pure una parrucchiera che avrebbe ricevuto le confidenze di una sua cliente, figlia di un boss “amico” di Contrada mentre le faceva la messa in piega, e una medium che ha visto in sogno Giovanni Falcone che l’avvertiva che sarebbe stato presto ammazzato anche Paolo Borsellino e che l’assassino dell’uno e dell’altro è Contrada. E accanto alla parrucchiera e alla medium c’è la famosa investigatrice svizzera Carla Del Ponte, che ha inquisito Oliviero Tognoli, un industriale riciclatore dei soldi della mafia, fuggito in Svizzera mentre stavano per arrestarlo a Palermo. La Del Ponte sostiene, e depone sotto giuramento in tal senso, che Tognoli ha confessato che ad avvertirlo per farlo fuggire in tempo è stato Contrada. Ma nel verbale dell’interrogatorio firmato da Tognoli l’accusa a Contrada non c’è: “Pare comunque inverosimile – scriveranno i magistrati della Camera dei ricorsi penali del tribunale di appello di Lugano – che un magistrato che ha controfirmato i verbali resi da Tognoli, deponga poi attribuendo allo stesso Tognoli dichiarazioni diametralmente opposte a quelle verbalizzate, come appare problematico dare rilevanza alle dichiarazioni di coloro che erano istituzionalmente presenti all’interrogato di Tognoli e che riferiscono di dichiarazioni che sarebbe state rese, ma non risultano riportate nel verbale”. Perché è successo anche questo, che i presenti all’interrogatorio hanno riferito che Tognoli non disse né verbalizzò nulla contro Contrada, ma a domanda estemporanea e fuori verbale di Giovanni Falcone (“Non sarà stato Contrada ad avvertirla…?”) aveva risposto con un sorriso:”un sorriso – arriva a dire lo stesso Falcone – che per chi conosce il linguaggio dei siciliani, e in specie della mafia, non poteva che avere un significato, quello di confermare che ad informarlo era stato Contrada…”. Ecco il dilemma: che vorrà dire l’ambiguo sorriso di un siciliano? Vuole dire “sì” o vuole dire “no”? Alla risposta a questa domanda è appeso il destino di Bruno Contrada. Sta di fatto che col tempo si scoprirà chi è veramente stato ad informare Contrada, non è stato il Tognoli, sfinge sorridente, ma un poliziotto di Palermo notoriamente suo amico da tempo. Nel frattempo, anche per quel “sorriso” alla siciliana, Contrada viene condannato a dieci anni di galera.

 

Contrada condannato in primo grado, assolto in appello, l’assoluzione cancellata dalla Cassazione, ricondannato nel secondo appello, la sentenza confermata dalla seconda Cassazione

 

Quando poi Contrada sarà assolto in appello, la Cassazione annullerà “per mancanza di struttura logica nella motivazione” e dispone un nuovo giudizio per confermare o contestare la “logica” della motivazione della assoluzione. Si scoprirà che i segugi di Palermo, appena dopo l’assoluzione di Contrada in appello, hanno intercettata una conversazione tra due presunti mafiosi, che è in loro possesso dall’11 novembre del 2001, da sei mesi dopo l’assoluzione di Contrada, e l’hanno tenuta nascosta fino a quando la Cassazione non ha annullato la sentenza di assoluzione. Nella conversazione intercettata uno dei due mafiosi dice all’altro: “Questo Contrada ha due palle d’acciaio, grosse come le ruote di un automobile…”. E l’altro replica: “Iddu ci fici scappare…”. Che significa? C’è una duplice esegesi, alcuni dei periti sostengono che vuol dire che Contrada aveva aperto le porte della cella per favorire la loro evasione, o quanto meno li aveva avvertiti alla vigilia di una retata; altri esperti sostengono che vuol dire che Contrada li ha sorpresi sul lavoro e li ha messi in fuga. Come che sia, al secondo appello Contrada verrà ricondannato anche per l’interpretazione controversa di una telefonata.

Le accuse a Contrada, tutte le accuse, nessuna esclusa, si basano sul “de relato”, nessun “pentito” sa le cose che dice di scienza propria, tutti riferiscono per sentito dire. Molti si basano persino sul “de relato” dall’oltretomba, quelli che le cose gliele avrebbero dette, sono tutti morti. Buscetta riferisce cose che dice di aver apprese da Riccobono e da Bontate: Bontate è morto ammazzato il 23 aprile del 1981, 14 anni prima del processo a Contrada e della deposizione di Buscetta; Riccobono è morto ammazzato il 30 novembre del 1982, 13 anni prima. Mutolo riferisce da Riccobono, morto. Marino Mannoia riferisce da Bontate e Riccobono, idem. Spatola riferisce del pranzo di Contrada con Riccobono in saletta del ristorante che non è mai esistita e con Riccobono che è morto,idem. Quando gli avvocati di Contrada esibiscono la planimetria del ristorante che smentisce Spatola, i pm richiamano il “pentito” e gli fanno cambiare versione: Contrada e Riccobono non mangiavano in una saletta, dirà Spatola, ma in un angolo appartato del ristorante, accanto al cesso

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Cinque capi della polizia, due capi del controspionaggio, tre alti commissari per la lotta alla mafia, due generali della Guardia di Finanza, venti tra questori e funzionari di Ps, dieci ufficiali dei Carabinieri, una cinquantina di agenti e due ministri difendono Contrada – Ma i giudici di Palermo credono solo agli assassini

Contro le accuse di questi “pentiti” sono sfilati a deporre in difesa di Contrada cinque capi della polizia, Parlato, Coronas, Porpora, Parisi e Masone, e due capi del controspionaggio, Malpica e Voci, e tre alti commissari per la lotta contro la mafia, De Francesco, Boccia e Finocchiaro, due generali di divisione della Guardia di Finanza, Mola e Pizzuti, e 20 tra questori e funzionari di Ps, e 10 ufficiali dei carabinieri, e una cinquantina di agenti delle squadre mobili, e due ministri. Il più prestigioso dei capi della polizia che abbia avuto l’Italia, Vincenzo Parisi, proprio lui che ha preso a benvolere De Gennaro e lo ha protetto e agevolato nelle carriera, dichiara al processo: “Bruno Contrada è un investigatore straordinario: il suo è un curriculum brillantissimo ed egli ha sempre dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafioso, di cui è una memoria storica eccezionale. E per questo ha ricevuto per trentatrè volte elogi dall’amministrazione e dalla magistratura. Bisogna far luce – concludeva Parisi – su eventuali interessi ed eventuali corvi che hanno ispirato ai ‘pentiti’ le loro accuse e le loro rivelazioni così tardive. I fatti di cui loro parlano sarebbero avvenuti più di dieci anni fa: perché i ‘pentiti’ parlano solo ora e chi li manovra?. Io vedo un pericolo per la democrazia…”. E a Giacomo Mancini, segretario del Psi, Parisi confiderà: “Questo De Gennaro mi preoccupa, si sta sempre più legando a Luciano Violante e ai comunisti, ed è sempre più spregiudicato nei metodi che adotta nelle indagini…”.

Il prefetto Emanuele De Francesco, che è stato il primo alto commissario antimafia e poi è stato direttore del Sisde, ha raccontato ai giudici dello “specioso malanimo” agitato contro Contrada, quando era il suo capo di Gabinetto, da certe “lobby” o “cordate”, così le ha chiamate, del ministero dell’Interno, e ha raccontato che a un certo punto il fenomeno divenne così evidente e scandaloso che fu costretto a scrivere una lettera(esibita al processo)all’allora presidente della Repubblica Scalfaro per denunciare questi attacchi a Contrada che “provenivano dall’interno della Questura”. Un Altro prefetto, Angelo Finocchiaro, che è stato direttore del Sismi, era già andato a deporre dinanzi alla commissione parlamentare antimafia per denunciare “gli attacchi ripetuti e proditori” e “la campagna denigratoria” contro Contrada e il Sisde. Finocchiaro fece dinanzi ai giudici una clamorosa rivelazione: una notte c’era stata una misteriosa “irruzione” negli uffici del Sisde, il servizio segreto civile, degli agenti della Dia diretti da De Gennaro. Che cercavano? Cosa portarono via? Chi ce li aveva mandati? “Contrada – dice Emanuele Macaluso, l’ex esponente del Pci che più ne sa della Sicilia e della mafia – si è trovato al crocevia di un periodo di transizione che naturalmente ha coinvolto anche gli apparati. Bisognerebbe scrivere un libro sulla guerra degli apparati, sulla guerra tra polizia e carabinieri, sulla guerra tra i servizi segreti e i vari corpi speciali, sulla guerra sferrata e vinta da De Gennaro…”. Del resto, è stato il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga a chiedere, a un certo punto,lo scioglimento della Dia, accusandola di aver adottato i metodi propri di un servizio segreto di polizia politica”.

Ma i giudici di primo grado e quelli del secondo appello hanno creduto, piuttosto che al fior fiore dei funzionari e dei servitori dello Stato, agli assassini e ai peggiori lestofanti, senza riscontri e senza prove, ma sempre reclutati e addestrati e pagati per la bisogna dalla Dia diretta da De Gennaro. Gli hanno creduto e li hanno premiati, mettendoli in libertà, perché magari, come è avvenuto ed è stato giudiziaramente accertato per Spatola e Contorno, potessero tornare a delinquere, e finanziati dallo Stato. Il presidente della seconda Corte di appello, quella che a differenza della prima, ha condannato Contrada, si era già pronunciato per la colpevolezza di Contrada quando, cinque anni prima, in qualità di gip, gli aveva negato la scarcerazione, nonostante due anni e mezzo – due anni e mezzo! – già passati in isolamento a Forte Boccea, e le gravi condizioni di salute: era assolutamente incompatibile a partecipare e a presiedere la Corte, ma ce l’avevano messo appositamente.

 

15 anni di processi e di prigione a Contrada, 15 anni di splendida carriera a De Gennaro – Sempre d’accordo a sostenere De Gennaro la destra e la sinistra – Solo Cossiga lo accusa: uomo insincero, tortuoso, ipocrita, falso, cinico e ambiguo, la sua Dia è come l’Ovra, la Gestapo,il Kgb – Il ministro dell’Interno non risponde Cossiga presenta le sue dimissioni da senatore a vita – La Giustizia come la intende il pm Antonio Ingroia

Arrestato alla vigilia di Natale del ’92,alle 7 del mattino,come la vittima del “Processo” di Kafka (“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché alle 7 del mattino bussarono alla sua porta…”), Contrada aveva allora 62 anni, è rimasto rinchiuso per due anni e sette mesi in un carcere militare riaperto solo per lui,e prima ancora che cominciasse il processo (intanto reclutavano i “pentiti”), e dopo 15 anni trascorsi tra il processo di primo grado, i due processi di appello,le due volte in Cassazione, è tornato in galera a 77 anni per scontare altri otto anni,e forse per non riuscirne più da vivo. Nel frattempo, Gianni De Gennaro ha fatto la sua splendida carriera. Dopo ogni sfornata di “pentiti”, dopo ogni processo politico, il suggeritore De Gennaro aveva uno scatto di carriera, vicecapo e capo della Dia prima, vicecapo e capo della polizia dopo, con gli uomini a lui fedeli sistemati in tutti i posti chiave, con quelli che non erano d’accordo emarginati, epurati, sempre con il rischio di fare la fine di Contrada. Due poliziotti: a Contrada 15 anni di processi e di galera, a De Gennaro 15 anni di carriera. Con il centro sinistra e il centro destra sempre d’accordo, la sinistra lo ha nominato capo della polizia, la destra lo ha riconfermato, con tutti, o quasi tutti sempre a difenderlo: Scajola o Amato, Violante o Pera, giustizialisti di professione o garantisti da operetta. Era rimasto soltanto Cossiga a tener duro: “Farò di tutto per far cacciare De Gennaro – aveva gridato qualche mese fa in pieno Senato – un uomo insincero, tortuoso, ipocrita, falso, un personaggio cinico e ambiguo che usa spregiudicatamente la sua influenza, un losco figuro di tale bassezza morale che è passato indenne da manutengolo della Fbi americana, dalla tragedia del G8 di Genova, che è passato indenne dopo aver confezionato la polpetta avvelenata che ha portato alle dimissioni di un ministro dell’Interno,che è passato indenne da tante cose…”(Senato della Repubblica, XV legislatura,81°seduta, 23 novembre 2006, resoconto stenografico,pagina 72).

Cossiga ha presentato una decina di interrogazioni e di interpellanze. Il ministro dell’Interno non gli ha mai risposto,il Parlamento non ne ha mai discusso, la stampa e la televisione hanno sempre taciuto. Anche l’ultima volta, dopo l’ennesima interrogazione e dopo le accuse più violente e clamorose che siano state mai pronunciate in un Parlamento, il ministro non ha risposto pubblicamente a Cossiga(soltanto ha inviato a Cossiga dopo un mese un biglietto “privato”, il cui contenuto è rimasto segreto). Cossiga ha presentato le dimissioni da senatore a vita:”Tanto, non conto niente – ha dichiarato – il Senato della Repubblica non conta più niente”. E ha chiesto scusa. Il Presidente emerito della Repubblica ha chiesto scusa allo sbirro,al carnefice di Contrada e di tanti altri. Il Senato ha respinto le dimissioni di Cossiga. Il Governo, dopo sette anni e un mese che ha diretto la polizia,ha destituito De Gennaro,non senza ricoprirlo di ringraziamenti e di elogi. Contrada ha bussato al portone del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e si è consegnato. Il solito pm di Palermo Antonio Ingroia, quello che ha sostenuto l’accusa contro Contrada, ed è lo stesso che ha sostenuto l’accusa contro Dell’Utri nel processo di primo grado, e utilizzando gli stessi “pentiti”, si è dichiarato “soddisfatto” di come è finita per Contrada in Cassazione dopo 15 anni: “E’ la dimostrazione – ha detto – che avevamo ragione,che il processo che gli abbiamo fatto era giusto”.

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