Le rivelazioni dell’uomo del Parco, del Castello e del Regno Unito

Il 6 febbraio del 1999 è entrato in scena nel mio processo d’appello un “pentito” di rango : Francesco Di Carlo di Altofonte (Comune palermitano denominato nei tempi passati “il Parco”), trafficante di droga nonché mafioso.

Esattamente diciotto anni prima (6 febbraio 1981), con un mio rapporto giudiziario sugli omicidi del Capo della Squadra Mobile, dott. G.B. Giuliano, e del Capitano dei Carabinieri E. Basile, Comandante della Compagnia Carabinieri di Monreale, l’avevo denunziato per associazione per delinquere di stampo mafioso e concorso in omicidio, insieme con i suoi fratelli Andrea e Giulio, e un’altra trentina di criminali, già responsabili quasi tutti di gravissimi delitti e che, negli anni successivi, avendo nel frattempo riacquistata la libertà o essendo rimasti latitanti, avrebbero perpetrato ancor più efferati crimini o sarebbero rimasti vittime degli scontri cruenti tra cosche avverse. Tra essi i più noti: Bagarella Leoluca, cognato di Totò Riina, Greco Giuseppe, Pietro e Giovannello, Marchese Filippo, Vincenzo, Antonino e Gregorio, i fratelli Gregorio e Giuseppe Agrigento, Capizzi Benedetto, Pullarà Ignazio, Gioè Antonino, Madonna Giuseppe, Bonanno Armando, Puccio Vincenzo, Cannella Tommaso etc…. Qualcuno di questi (Pietro Greco e Vincenzo Puccio) sarà ucciso e qualcuno si ucciderà nelle Carceri.

Ebbene questo signor Francesco Di Carlo, volendo forse seguire gli usi e costumi dei rampolli della nobiltà e della ricca borghesia siciliana dei tempi passati, aveva trascorso un lungo periodo nell’Isola britannica. Però, invece di curare l’apprendimento e perfezionamento della lingua o l’acquisizione dello stile di vita di quella terra, e di dedicare il suo tempo alla visita dei medioevali castelli, delle industrie manifatturiere e dei pascoli di Scozia, si era ben inserito nel turpe e lucroso traffico internazionale di stupefacenti per cui, colto con le mani nel sacco, si era beccata una condanna a 25 anni di galera.

Un bel giorno, però, dopo che aveva trascorso una diecina di anni quale ospite obbligato e di certo non gradito di S.M. Britannica, essendosi comprensibilmente annoiato di siffatta situazione, pensò bene di dichiararsi “pentito” in base alle leggi italiane. Con il lavacro laico del pentimento giudiziario tornò in Italia, carcerato in un primo momento e per poco, poi quasi libero e infine libero del tutto, ben tutelato, protetto, ricompensato.

Cominciò a girare per le varie aule giudiziarie, a conclamare il suo “verbo”, al riparo di un paravento e di una barriera a cerchio costituita da aitanti poliziotti o carabinieri addestrati a difendere da ogni insidia preziose vite umane.

Il suo “verbo” l’ho ascoltato anch’io in quel freddo mattino, nella vasta e livida aula bunker del Carcere palermitano Pagliarelli. Egli ha parlato di me, narrando tra l’altro due fatti, uno dei quali mi ha provocato amaro sdegno e l’altro amaro riso.

Ho avuto la sensazione di trovarmi in un teatro e di assistere alla recita di un dramma farsesco : non riuscivo a comprendere se in esso ero un semplice spettatore oppure il protagonista.

1) L’enorme paura

L’uomo dal volto nascosto disse:

“…il dott. Contrada aveva una enorme paura da quando avevamo ammazzato Giuliano (1), da quando avevamo ammazzato il colonnello Russo (2)”

“…perché aveva una paura enorme, specialmente dopo la morte di quel poliziotto che era stato ucciso proprio da Saro Riccobono con le proprie mani ucciso. Cappiello (3) si chiamava…”

“…aveva una paura enorme, per quello che mi diceva Riccobono…”

Alla domanda : “Di chi aveva paura Contrada?”, ecco la risposta :”Di quelli che dovevano ammazzarlo…Cosa Nostra…per forza si doveva ammazzare…in quel periodo aveva paura…”

Allora, cosa mai fa il povero e tremebondo poliziotto con in corpo la “paura enorme” di essere ucciso come Giuliano, Russo e Cappiello?

Va al Ministero dell’Interno dal Capo della Polizia a chiedere il trasferimento (richiesta che sarebbe stata più che giustificata dopo una permanenza a Palermo ultradecennale) per un’altra sede, quale Napoli, sua città natale, o Roma, possibilmente negli ovattati uffici ministeriali, oppure una serena Questura della verde Umbria o dolce Toscana? Oppure, non volendo lasciare l’amata Palermo, ormai sua città di adozione, va dal Questore a chiedergli di essere esonerato dalla dirigenza della Squadra Mobile, impegnata in prima linea nella lotta contro la mafia e di essere assegnato ad altro incarico più sicuro e tranquillo se non altrettanto prestigioso, come ad esempio la Polizia Amministrativa, il Gabinetto, l’Ufficio Politico o Stranierei o l’Ispettorato P.S. presso la Regione Siciliana?

NO! Nulla di tutto ciò fa il dott. Contrada.

Egli va da Riccobono Rosario, Saro “il terrorista” , capo della “famiglia” mafiosa di Partanna Mondello e borgate limitrofe, e gli fa questo semplice discorso:

“Caro Saro, sino ad oggi ho fatto il poliziotto cattivo; ho fatto indagini e denunzie, ho arrestato delinquenti mafiosi, ho usato metodi polizieschi duri, ho lottato contro la mafia e sono stato tuo strenuo avversario, anzi nemico. Da oggi, però, cambierò; farò il poliziotto buono,non darò più fastidio a te, ai tuoi compagni, alla tua “famiglia”, anzi a tutte le “famiglie”. Perseguirò soltanto ladri e borseggiatori, truffatori e ricettatori, sfruttatori di prostitute e spacciatori di droga e, proprio se necessario, qualche rapinatore ed estorsore, sempre naturalmente che tu lo voglia.

Ma tu mi devi tenere vicino, tu mi devi proteggere, non mi devi uccidere né permettere che altri lo facciano, tu glielo devi dire ai tuoi complici e compari e anche a quelli delle altre “cosche” che io sono diventato buono e servizievole e che perciò possono a me ricorrere per qualsiasi cosa di cui dovessero avere “di bisogno”. Allora posso stare tranquillo? Morirò serenamente nel mio letto? Me lo prometti sulla parola di “uomo d’onore”?

Saro ascolta, medita e risponde :

“Caro Bruno, mi hai convinto; da oggi ti terrò a me vicino, anzi a me stretto, stretto come se fossimo “ziti”, puoi dormire sonni tranquilli, nessuno oserà farti del male, nessuno ti torcerà un capello. Io veglierò su di te”.

A questa bella conversazione tra Bruno, il poliziotto, e Saro, il mafioso, prima l’un contro l’altro armati e ora mano nella mano (svoltasi dove? Nel salotto di casa Contrada o nella villa a mare di Riccobono, brindando al “patto” con un corposo vino siciliano, oppure in un accorsato ristorante con vista panoramica, dinanzi ad un fumante piatto di maccheroni?), sembra riferirsi il sig. Di Carlo, quando, in alta uniforme di pentito di 1^ classe , con adeguata guardia del corpo e orgoglio per il rango raggiunto nella gerarchia “collaborativa”, ha sintetizzato con queste espressioni l’accordo stipulato tra i due personaggi..

“…(Contrada) ……aveva paura di morire e allora si teneva Riccobono che era chiamato Saro il terrorista”

“…che l’aveva vicino, perché Contrada si teneva vicino (a Riccobono) perché aveva una paura enorme….”

“.è stato Rosario stesso che me lo diceva…..che lo informava di tutto…se c’era qualche preparazione di perquisizione o arresti di notturni ( e quelli diurni, no? n.d.r.) e qualcosa…. All’ordine sempre di gente di certo livello, se erano operazioni che capivano che non erano di Cosa Nostra, niente…..”

Cioè io dovevo star di vedetta, pronto a suonar l’allarme con la tromba, quale emulo della “trummetta della Vicaria” di storica memoria napoletana (4), all’approssimarsi o nella imminenza di pericoli per mafia e mafiosi.

Così mi ero ridotto, secondo la strabiliante, eclatante e fantastica rivelazione del reduce delle galere di Sua Maestà Britannica.

Giova, però, ricordare che nel lasso di tempo tra l’omicidio dell’agente di P.S. Gaetano Cappiello (1975) e la sparizione del boss Riccobono (fine del 1982) io ho vissuto anni intensi di attività di polizia, sia sul piano investigativo che informativo, ricoprendo gli incarichi più impegnati ed esposti nella lotta contro la mafia: Capo della Squadra Mobile sino al 1976, Dirigente del Centro Criminalpol della Sicilia Occidentale (1976-1982), Coordinatore dei Servizi di Sicurezza della Sicilia e Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario (dal 1982 al 1985).

2) Elisabetta II Regina di Inghilterra a Palermo : Il pranzo, l’offesa e il proposito di vendetta.

Poteva mai il gentleman siculo-inglese non cogliere l’occasione di narrare qualcosa che avesse sia pure un riferimento a S.M. britannica, se non altro per il fatto di essere stato per tanti anni suo “ospite” in ceppi? No,di certo; ecco allora il suo racconto.

Il 20 ottobre del 1980, la Sovrana ed il Principe consorte, Filippo di Edimburgo, sbarcati dal panfilo reale “Britannia”, avevano trascorso in visita privata una mezza giornata a Palermo. In loro onore era stato, tra l’altro, organizzato a cura del Ministero degli Esteri, della Presidenza della Regione e della Prefettura, un pranzo a Palazzo Ganci, storica e sontuosa dimora dei Principi Vincenzo di S.Vincenzo e Stefania Ganci.

A questo punto chiunque potrebbe a giusta ragione domandarsi : ma che c’entra il dott. Contrada con la Regina di Inghilterra, la sua breve visita a Palermo, Palazzo Ganci e così via?

Ci “azzecca” invece e come! (per inciso, chiedo scusa al senatore A. Di Pietro del plagio di una sua abituale simpatica espressione)

Infatti, l’implacabile accusatore- non parlo certo del Pubblico Ministero ma dell’impunito (il pentito Di Carlo) – fa una strabiliante rivelazione : il dott. Contrada rimase offeso, atrocemente offeso, per non essere stato invitato al pranzo della Regina e incolpò dell’imperdonabile affronto subìto Alessandro Vanni S.Vincenzo, figlio del padrone di casa. Il nobile rampollo era stato socio di fatto – nella gestione di un esercizio pubblico night-discoteca-ristorante, il “Castello a S.Nicola l’Arena, sulla costa palermitana – con il Di Carlo, negli anni precedenti il suo soggiorno in Gran Bretagna.

Pertanto il dott. Contrada – prosegue nel suo racconto il pentito – giurò di fargliela pagare cara, di vendicarsi, di lavare l’offesa col sangue. La notizia si diffuse nell’ambiente di mafia ed il buon Di Carlo, preoccupato per la vita del suo amico Alessandro Vanni, ricorse a Saro Riccobono perché intervenisse e scongiurasse il pericolo, forte dell’autorità derivategli dal posto di rilievo occupato in seno a Cosa Nostra nonché del patto d’acciaio che lo legava al Poliziotto, pervaso ormai di sete di vendetta.

Nell’aula blindata di Pagliarelli, si udirono le parole provenienti dall’uomo dal volto coperto :” Ci aveva detto che era offeso perché ci era stata a giugno la visita a casa di questo mio amico Alessandro a Palazzo Ganci, la visita della Regina d’Inghilterra col marito, avevano pranzato là e che non era stato invitato…….e ce la avrebbe fatto pagare al Principe Alessandro…….”

“ Beh, io sapevo che il Contrada era intimo con Saro Riccobono, la prima occasione che ho avuto con Saro ci ho detto : vedi che le cose stanno così e così, dicca a questo Contrada che non ha niente da farci pagare altrimenti ce la faccio pagare io. Saro mi ha visto un po’ incavolato, mi ha detto : tu sai chi mi tocca Alessandro, io ci tolgo la vita”

“Io vado a dirci (a Riccobono) di stare attento a Contrada cosa aveva con il principe di S.Vincenzo”

Alla domanda :”Lei, sig. Di Carlo, lo avrebbe ammazzato (Contrada) se avesse toccato S.Vincenzo?” Risponde :”Ma non io, Saro Riccobono stesso perché prima viene uno di Cosa Nostra e poi veniva il dott. Contrada, anche per il Riccobono stesso”.

Poi conclude il suo dire “Cosa Nostra lo avrebbe ammazzato se avrebbe (sic!) fatto qualcosa a uno di Cosa Nostra!”

Insomma, il senso del contorto e sgrammaticato discorso del Di Carlo, che forse nel Regno Unito aveva appreso un po’ di lingua inglese obliando quella italiana, era che, tra il sacrificio del nobile mafioso, per mano del dott. Contrada, e quello dell’amico Contrada, don Saro Riccobono non avrebbe avuto alcuna esitazione a uccidere il poliziotto. Rileggo il verbale di udienza e rilevo che l’ineffabile “collaborante di giustizia”, un volta terminato il capitolo esilarante sul pranzo dei reali inglesi, chiese: “ Sig. Presidente, mi dà un minuto, bevo un po’ d’acqua”. Ne aveva ben donde, dopo lo sforzo richiesto al suo intelletto per partorire panzane di portata tale che molto efficacemente nel dialetto della mia Città sono definite con l’espressione :”all’ànema d’‘a palla!”.

Ricordando quei momenti non so dire se nell’aula aleggiasse più ilarità o tristezza, più sdegno o vergogna.

Confesso che talvolta mi è passato per la mente di scrivere una letterina ad Elisabetta II d’Inghilterra per dirLe : “Maestà sappia che la sua fuggevole visita a Palermo nel 1980 mi ha fatto correre un grosso rischio : di diventare un assassino o un assassinato. Può e vuole rimediare a questa sua involontaria colpa concedendomi un Ordine Equestre, magari quello della Giarrettiera? (5)

Ma, poi, il pensiero che S.M. Elisabetta II d’Inghilterra e S.A.R. Filippo di Edimburgo avevano, sia pure per qualche ora soltanto, avuto rapporti con la famiglia di un rampollo mafioso, per il pranzo a Palazzo Ganci dei Principi di S.Vincenzo, e il ricordo delle traversie sofferte per aver accettato la croce di cavaliere dell’Ordine Equestre del S. Sepolcro di Gerusalemme (6), ancor più antico di quello della Giarrettiera, mi hanno distolto dal vagheggiato proposito.

Qualcuno potrebbe chiedermi :”ma perché racconti sciocchezze del genere?” Perché, anche i “non addetti ai lavori” sappiano di qual natura sono talvolta i discorsi, anzi le farneticazioni e le fantasie di siffatti personaggi che, con le insegne di “collaboranti di Giustizia” (avranno un giorno anche una uniforme con i gradi, le onorificenze e i distintivi al merito, come i briganti antifrancesi e antimurattiani nel Regno di Napoli dei Borboni, all’inizio dell’800?) imperversano ormai da anni nelle nostre austere aule giudiziarie, ove si decide della vita e della libertà di uomini, spesso colpevoli, ma talvolta anche innocenti..

Lettore,

concludo e chiudo.

Bando al faceto e spazio alla realtà. Via la maschera teatrale e sorridente perché riappaia il volto vero e sofferente.

Per ciancie, ciarle, fandonie, fole e frottole del genere raccontate in un’aula di giustizia da un cialtrone, purtroppo anche delinquente e purtroppo ancor di più “pentito”, è stata distrutta la vita di un uomo, purtroppo, anche, uomo dello Stato!

Note in calce al capitolo :

  • Il dott. Giorgio Boris Giuliano, dirigente della Squadra Mobile di Palermo, fu ucciso il 21 luglio 1979 in via Francesco Paolo Di Blasi, in un agguato mafioso.
  • Il Ten. Col. CC. Giuseppe Russo, già Comandante del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Palermo, fu ucciso in un agguato mafioso il 14 agosto 1977 a Ficuzza, un territorio di Corleone.
  • La Guardia di P.S. Gaetano Cappiello, in forza alla Squadra Mobile, fu ucciso il 5 luglio 1975 nella borgata di Pallavicino, durante un servizio di polizia per arrestare gli autori di azione estorsiva. Quali responsabili furono denunziati Riccobono Rosario ed altri elementi della sua cosca mafiosa, tra cui Gaspare Mutolo, i fratelli Micalizzi ecc.
  • Chi divulga e strombazza tutto ciò che viene a sapere. Tale espressione prende spunto dal banditore della Gran Corte della Vicaria, che leggeva i bandi a suon di tromba.
  • Quello della Giarrettiera è il più alto e antico ordine cavalleresco inglese, istituito dal Re Edoardo III nel 1347.
  • L’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme fu fondato da Goffredo di Buglione nel 1099, dopo la prima Crociata nel corso della quale fu espugnata Gerusalemme e liberato il S. Sepolcro. In Sicilia l’Ordine trae le sue origini sin dal 1106 con la costituzione del primo priorato crociato. Con bolla in data 10 gennaio 1144 del Papa Celestino II, i Cavalieri del S. Sepolcro vennero accolti sotto la protezione della S. Sede.

N.B.

Al pranzo in onore della Regina d’Inghilterra e del Principe Consorte furono invitate soltanto le massime Autorità Civili, Religiose e Militari della Sicilia, secondo una lista predisposta dal Ministero degli Affari Esteri, della Presidenza della Regione e della Prefettura di Palermo. Parteciparono, inoltre, alcuni rappresentanti della nobiltà palermitana e inglese, alcuni componenti della famiglia dei Principi di S. Vincenzo e i diplomatici inglesi accreditati in Italia

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