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“I due poliziotti” di Lino Iannuzzi

De Gennaro prima incastra Andreotti poi scarica Caselli

 

E De Gennaro non è un ingrato, e volentieri ricambia, ogni volta che Violante è in difficoltà, non esita ad esporsi per difenderlo. Come quella volta che Giovanni Brusca, il braccio destro di Totò Riina, catturato e “pentito”, racconta che ha viaggiato in aereo da Palermo a Roma con Luciano Violante e hanno concordato insieme la trappola per Andreotti (la prima cosa è provata,la seconda no). Quando esplodono le dichiarazioni di Brusca, De Gennaro si precipita a rintuzzarle dicendo tutto il male possibile del mafioso e tutto il bene possibile del suo compare del Pci. Ma esagera, e costringe Giorgio Napolitano, che al momento è ministro dell’Interno, a rimbrottarlo pubblicamente: non tocca a lei, che è un funzionario dello Stato, gli dice, intervenire pubblicamente in queste questioni.

Non altrettanto solidale De Gennaro sarà sempre con il terzo membro della combriccola, il procuratore Giancarlo Caselli, spedito in fretta da Torino a Palermo,giusto in tempo per processare Contrada, Andreotti, Carnevale e compagnia cantando. E’ stato lo stesso Andreotti a rivelare che fu proprio De Gennaro,che aveva arruolato e fornito a Caselli i “pentiti” per processarlo, a recarsi a casa sua per tranquillizzarlo: caro presidente, gli disse De Gennaro, non stia a preoccuparsi, perché a tutti questi “pentiti” e alle loro accuse mancano i riscontri e le prove, alla fine non potranno che assolverla. Nei riguardi di Caselli, che ci fa la figura del tonto della compagnia, De Gennaro fa anche di peggio. Nominato capo della polizia con il consenso anche della Casa della Libertà, ed essendo ormai scontata l’assoluzione di Andreotti, i giornalisti di “Repubblica” che a De Gennaro non hanno mai smesso di voler bene, prima durante e dopo, al punto da indurre Francesco Cossiga a presentare un’interrogazione al ministro degli Interni per accertare se addirittura di De Gennaro non fossero a libro paga, “per chiarire definitivamente come stanno le cose tra Caselli e De Gennaro”, scrivono: “E’ già dal 1992 che i rapporti tra il nuovo capo della polizia e i magistrati di Palermo sono, se non agitati, per lo meno problematici. Pur avendo lavorato di buona lena per incastrare Andreotti, De Gennaro non ha mai pensato che le prove raccolte fossero sufficienti e che fossero solidi i riscontri alle dichiarazioni dei ‘pentiti’ ed ha sempre espresso i suoi dubbi, convinto come è sempre stato che Andreotti andasse prosciolto già nelle indagini preliminari. Ma rimase inascoltato e finì incastrato da protagonista nella vicenda, con sulle spalle il mantello del perfido burattinaio…”. Infatti, Andreotti non lo ha mai nominato direttamente e mai lo ha accusato, ma ha sempre parlato di un “suggeritore”: dei tre, scartato Caselli per insuperabile incapacità, non restavano che Violante o De Gennaro. Ma Violante è piuttosto l’ispiratore dell’operazione, il suggeritore dei pentiti indispensabili al processo non poteva essere che De Gennaro. Caselli farà anche l’errore di scrivere a “Repubblica” per respingere sdegnosamente le “illazioni” dei giornalisti: De Gennaro non mi ha mai manifestato i suoi dubbi, scrive, e comunque contro Andreotti le prove c’erano, e in abbondanza. Risate dei giornalisti, di Andreotti, di De Gennaro, e dei lettori.

 

Marcello Pera corre in soccorso di De Gennaro e impedisce a Contrada di denunciare i suoi carnefici

Non sono solo Luciano Violante e i giustizialisti della sinistra ad accorrere a coprire i misfatti di De Gennaro e a maramaldeggiare su Contrada. Dopo quasi dieci anni di processi, Contrada, condannato a 10 anni in primo grado, viene clamorosamente assolto in appello con formula piena e annuncia per il giorno dopo la lettura della sentenza una conferenza stampa: Contrada, scrivono i giornali e preannuncia la televisione domani rivelerà i retroscena della congiura ordita contro di lui e farà i nomi e i cognomi dei congiurati. E’ a questo punto che compare sul “Corriere della sera” una intervista del senatore Marcello Pera, all’epoca responsabile di Forza Italia per i problemi della Giustizia, che ha il sapore amaro di un invito a tacere, è a tutti gli effetti una censura e un veto:”Non è più il momento – dice Pera – delle polemiche e la decisione del tribunale di Palermo, che ha assolto il dottor Bruno Contrada, non deve servire ad avvelenare ancora il clima del Paese”. Insomma,intende Pera, Condrada alla fine è stato assolto: che altro vuole? Si contenti di essersela cavata così a buon mercato, e se ne stia zitto e soprattutto non si azzardi a chiamare in causa il capo della polizia. Quello che vorrebbe e dovrebbe essere il difensore e il garantista per antonomasia del Partito della Libertà è in combutta con lo sbirro dei “pentiti” e il carnefice degli stessi esponenti della Casa della Libertà, e chiude la bocca alla vittima. Non è un caso isolato: il connubio Pera-De Gennaro dura nel tempo e organizza anche convegni e dibattiti in comune, fino al punto di provocare la reazione indignata di Filippo Mancuso, illustre e stimato magistrato veramente garantista e poi ministro della Giustizia del governo Dini, epurato ad personam perché vuole mandare gli ispettori a Milano e a Palermo. Mancuso, invitato a fare da relatore a uno di questi convegni organizzati dal filosofo delle scienze e dallo sbirro, rovescia il tavolo: con De Gennaro no, esclama, e lo scaccia dalla tribuna.

Intanto Contrada disdice la sera stessa dell’intervista di Pera la conferenza stampa e contemporaneamente invia un telegramma al capo della polizia Gianni De Gennaro: “Nel frastuono di voci dissonanti voglio che una sola si senta e sovrasti su tutte: quella della mia assoluta dedizione, passata presente e futura, alla polizia di Stato e al suo capo”. Questo è l’uomo, lo sbirro tutto di un pezzo che ha giurato che fin quando De Gennaro sarà il capo della polizia, non parlerà

 

Rosario Spatola ‘testimone oculare’ di un pranzo che non c’è stato nella saletta riservata che non è mai esistita – Alla procura di Palermo i ‘pentiti’ si confessano e cambiano versione a volontà – Il ‘pentito’ è tanto più credibile quanto più è assassino e quanta più gente ha ammazzato

 

Contrada non parlerà mai più. Subirà in silenzio l’ignominia delle calunnie di una dozzina di “pentiti” reclutati dalla Dia di De Gennaro, che finiranno per smentirsi e per accusarsi a vicenda: come Rosario Spatola, che dice di averlo visto pranzare con Rosario Riccobono nella saletta riservata di un noto ristorante di Palermo che, si scoprirà con le planimetrie esibite dagli avvocati della difesa, non ha mai avuto una saletta riservata. Spatola, oltre che clamorosamente smentito, finirà espulso dal programma di protezione perché con i soldi dello stipendio dello Stato fa uso e traffico di stupefacenti. A sua volta Spatola si vendicherà rivelando che lui e gli altri “pentiti” sono stati “combinati” e che Gaspare Mutolo, il “pentito” primo tra gli accusatori di Contrada (e sempre dopo aver fatto quattro chiacchiere con De Gennaro), riceve a cena a casa sua gli altri “pentiti” esibiti dall’accusa, per concordare le deposizioni, e i giornalisti portavoce della procura perché pubblichino le accuse a Contrada prima ancora che siano formulate nell’aula del processo. Nella sentenza di condanna che conclude il processo di primo grado Mutolo è presentato come la “bocca della verità” ed è descritto come il “pentito” più attendibile perché è di tutti il più assassino, quello che ne ha ucciso più di tutti. Gli domandano: quanti omicidi ha fatto? E Mutolo risponde: “Ma guardi, io tra gli omicidi e gli strangolamenti, insomma, sono più di 30,30 omicidi che ho fatto in tre anni, dal ’73 al ’76, e in un piccolo periodo dall’81 all’82…”. Perché,scrivono i giudici nella sentenza di condanna, “un primo indice di affidabilità delle notizie riferite dal collaboratore di giustizia deve rinvenirsi nello spessore mafioso degli uomini d’onore”. Come dire che la credibilità di un “pentito” che accusa la si misura in proporzione agli omicidi che ha commesso e allo “spessore mafioso” dei compari che ha frequentato. Più il “pentito” è mafioso, più è scellerato, più è ignobile, più è assassino, più ne ha assassinati, più è credibile, più le sue accuse rispondono sicuramente a verità. E chi è più credibile di Gaspare Mutolo, detto “u saittuni”, il topo di fogna?

 

Francesco Di Carlo accompagna Stefano Bontate e Mimmo Teresi a Milano a far visita e a baciare ilvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri – De Gennaro lo va a prendere nelle carceri inglesi e gli fa un’offerta che Di Carlo non può rifiutare – Cosimo Cirfeta viene ‘suicidato’ in carcere con una bomboletta di gas

 

Così Francesco De Carlo, reclutato da De Gennaro nelle carceri inglesi, dove era detenuto per traffico di stupefacenti, e dove gli inviati di De Gennaro gli hanno fatto un’offerta che non poteva rifiutare: se ci dici qualcosa su Contrada, ti tiriamo fuori di qui, facendoti risparmiare sette anni di carcere, e ti riportiamo libero e stipendiato in Italia… E’ lo stesso Di Carlo che sosterrà di aver accompagnato a Milano da Berlusconi e da Dell’Utri i capi di Cosa Nostra Stefano Bontate e Mimmo Teresi, per trattare di “affari” e per garantire che la mafia non farà del male ai figli del padrone della Fininvest. Si scoprirà e si proverà, ma soltanto dopo anni dalla deposizione e nel corso del processo d’appello a Dell’Utri, che nel periodo in cui Di Carlo avrebbe accompagnato Bontate e Teresi a far visita a Berlusconi (e ad abbracciarlo e baciarlo, Di Carlo testimone oculare), Bontate era recluso sotto costante sorveglianza al soggiorno obbligato a Pescara e poteva muoversi sotto scorta solo per presenziare al suo processo in corso a Palermo, e Teresi era al soggiorno obbligato a Foligno. Di Carlo sarà poi che sorpreso nel cortile del carcere in cui è detenuto mentre arruola a sua volta altri “pentiti” per accusare Dell’Utri e concordare le accuse. Cosimo Cirfeta, il “pentito” che ha sorpreso e denunciato Di Carlo e i “pentiti” suoi complici, è stato “suicidato” nella sua cella con una bomboletta di gas.

 

Francesco Marino Mannoia non sa niente di Contrada e lo dichiara a verbale, ma il verbale sparisce – Come è perché il mafioso Mannoia è più ‘uomo d’onore’ dei pm di Palermo

 

Il caso del “pentito” Francesco Marino Mannoia è ancora più clamoroso e scandaloso. Nel corso del processo di primo grado Mannoia depone che Contrada e Riccobono facevano i confidenti l’uno dell’altro”, e Contrada viene condannato. Al processo di appello gli avvocati di Contrada scoprono che esistono i verbali di due precedenti interrogatori di Mannoia, dove il “pentito”, richiesto dai pm se sa e può dire qualcosa di Contrada, dichiara di non saperne assolutamente nulla. Il presidente della Corte d’appello, la prima, quella che assolverà Contrada, domanda ai pm perché i verbali di quei due interrogatori sono stati nascosti e non sono stati portati al processo. Il pm Antonio Ingroia gli risponde che non hanno portato quei verbali perché “li avevamo ritenuti irrilevanti perché non riferivano alcuna circostanza a carico di Contrada” e perché l’accusa “è interessata solo ai documenti che sono a sostegno delle tesi accusatorie”. Lo Stato di diritto e la Costituzione si declinano così nella cultura dei professionisti dell’antimafia. Persino Mannoia, mafioso e delinquente e assassino, dimostrerà di avere più senso della giustizia degli inquisitori della procura di Palermo, e in particolare di questo Ingroia che nasconde i documenti della difesa e si esalta solo con quelli che accusano. Richiamato a deporre due anni dopo dalla Corte d’appello che assolverà Contrada, Mannoia dichiara: tutto quello che vi ho raccontato non è mai stato a mia diretta conoscenza, l’ho solo sentito dire in giro, “mi auguro che voi vogliate restituire l’onore a quest’uomo”. Come quei giudici faranno, il 4 maggio del 2001, nove anni dopo l’arresto della vigilia di Natale del ’92, lo assolveranno con formula piena, perché “il fatto non sussiste”. E con questa motivazione: “La sola frequentazione di Contrada con i boss mafiosi, senza il corredo di ulteriori manifestazioni significative o indizianti, non costituisce prova della sua volontà di prestare sostegno all’associazione criminosa. Le accuse dei collaboranti, alcuni dei quali possono essere portatori di sindrome rivendicatoria, difettano in linea di massima della necessaria specificità, riducendosi a mere affermazioni basate su apprezzamenti personali o considerazioni soggettive, mentre le circostanze esaminate e considerate come elementi di riscontro,si rivelano prive di valore probatorio”. L’assoluzione, in effetti, è valsa a Contrada solo la restituzione della sciabola d’ordinanza che gli era stata sequestrata, nove anni prima, al momento dell’arresto. Presto la Cassazione annullerà la sentenza di assoluzione e i giudici del nuovo processo d’appello gli rifileranno, pari pari, i dieci anni di galera che gli avevano inflitto i giudici di primo grado e che la prima Corte d’appello gli avevano tolti. In compenso, nonostante l’intervenuta condanna, non gli sarà sequestrata nuovamente la sciabola.

 

L’anfora rubata dalla mafia e che non è mai esistita, l’amante di Contrada a cui non è stata mai regalata l’Alfa Romeo, la parrucchiera che scopre i segreti dei boss sotto il casco della permanente, la medium che ha visto e sentito in sogno Giovanni Falcone, le notizie ricevute dai ‘pentiti’ dall’oltretomba, il sorriso che inganna nella terra di Pirandello

Degli altri “pentiti” non metterebbe nemmeno conto parlare, la tragedia viene sommersa dalla farsa. Tale Pietro Scavuzzo, più che rispettabile per il numero degli assassinii commessi, e quindi più che credibile, racconta che un giorno è salito in un appartamento di via Roma a Palermo, accompagnato da un esperto archeologo, presentatogli da un cittadino svizzero di nome Ludwig, e ricevuti da una signora dell’apparente età di 50-55 anni,che li fa accomodare in una stanza per valutare l’autenticità e il prezzo di mercato di un’anfora antica, che è stata regalata dalla mafia a Contrada, e che a sua volta Contrada deve regalare al vice questore di Trapani. Mesi e mesi di indagini e di accertamenti, decine e decine di agenti alla caccia, milioni di spese per individuare l’appartamento, l’archeologo, lo svizzero Ludwig, la signora cinquantenne, l’anfora antica. Senza risultato: l’appartamento, l’archeologo, Ludwig, la signora cinquantenne, l’anfora non si trovano, non se ne scopre l’ubicazione, il numero civico, né si trova il nome, né il cognome dei supposti protagonisti della seduta archeologica, il vice questore, perquisito lui, la casa del padre, le case dei fratelli, delle sorelle, dei figli, non si trovano anfore, niente di niente, non esistono. Ma che significa? “Tuttavia – scrivono i giudici nella sentenza di condanna – la mancata individuazione dell’appartamento non è idonea a smentire la veridicità delle dichiarazione del collaborante, atteso che il periodo riportato colloca il momento dell’incontro in un periodo in cui era possibile la presenza di Contrada a Palermo…”. Nessuno l’ha visto, nessuno li ha visti, nessuno processualmente esiste, e tuttavia “ci poteva stare, si potevano incontrare,possono esistere” e possono aver nascosto, chi sa dove, l’anfora della mafia che non si trova e non sarà mai più trovata. Un altro “pentito” denuncia che sono scomparsi 15 milioni dai conti di Riccobono e che il boss in realtà li ha regalati a Contrada, che ci ha comprato un’auto AlfaRomeo per regalarla alla sua amante. Perché, come sostiene e anche dimostra l’accusa, a Contrada “piacciono le donne”, e la mafia gliene offre a bizzeffe e gli da i soldi per mantenerle. Ricerche per mesi dell’amante di Contrada e dell’AlfaRomeo, inchiesta a tappeto su tutte le signore di Palermo che posseggono un’AlfaRomeo, finché gli avvocati dimostrano che quei 15 milioni Riccobono li ha spesi per regalare un’auto alla moglie, otto milioni, e un’auto alla madre, sette milioni.

Tra i testi dell’accusa c’è pure una parrucchiera che avrebbe ricevuto le confidenze di una sua cliente, figlia di un boss “amico” di Contrada mentre le faceva la messa in piega, e una medium che ha visto in sogno Giovanni Falcone che l’avvertiva che sarebbe stato presto ammazzato anche Paolo Borsellino e che l’assassino dell’uno e dell’altro è Contrada. E accanto alla parrucchiera e alla medium c’è la famosa investigatrice svizzera Carla Del Ponte, che ha inquisito Oliviero Tognoli, un industriale riciclatore dei soldi della mafia, fuggito in Svizzera mentre stavano per arrestarlo a Palermo. La Del Ponte sostiene, e depone sotto giuramento in tal senso, che Tognoli ha confessato che ad avvertirlo per farlo fuggire in tempo è stato Contrada. Ma nel verbale dell’interrogatorio firmato da Tognoli l’accusa a Contrada non c’è: “Pare comunque inverosimile – scriveranno i magistrati della Camera dei ricorsi penali del tribunale di appello di Lugano – che un magistrato che ha controfirmato i verbali resi da Tognoli, deponga poi attribuendo allo stesso Tognoli dichiarazioni diametralmente opposte a quelle verbalizzate, come appare problematico dare rilevanza alle dichiarazioni di coloro che erano istituzionalmente presenti all’interrogato di Tognoli e che riferiscono di dichiarazioni che sarebbe state rese, ma non risultano riportate nel verbale”. Perché è successo anche questo, che i presenti all’interrogatorio hanno riferito che Tognoli non disse né verbalizzò nulla contro Contrada, ma a domanda estemporanea e fuori verbale di Giovanni Falcone (“Non sarà stato Contrada ad avvertirla…?”) aveva risposto con un sorriso:”un sorriso – arriva a dire lo stesso Falcone – che per chi conosce il linguaggio dei siciliani, e in specie della mafia, non poteva che avere un significato, quello di confermare che ad informarlo era stato Contrada…”. Ecco il dilemma: che vorrà dire l’ambiguo sorriso di un siciliano? Vuole dire “sì” o vuole dire “no”? Alla risposta a questa domanda è appeso il destino di Bruno Contrada. Sta di fatto che col tempo si scoprirà chi è veramente stato ad informare Contrada, non è stato il Tognoli, sfinge sorridente, ma un poliziotto di Palermo notoriamente suo amico da tempo. Nel frattempo, anche per quel “sorriso” alla siciliana, Contrada viene condannato a dieci anni di galera.

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